Free Pussy Riot – di Jasmina Tešanović


Una traduzione di un post del blog di Jasmina Tešanović per inquadrare il caso delle Pussy Riot, distorto dalla stampa e dalla blogosfera quando per malafede, quando per incapacità di inserire il fenomeno nel suo contesto. Un altro articolo interessante sull’argomento, intitolato The Russian Anomaly, art interventionism as practice, si trova sull’ultimo numero di Neural.

In passato dicevo “Questa non sarà comunque la mia guerra” a mia figlia, alle mie colleghe più giovani e alle amiche, femministe o meno che fossero: alle ragazze.

Negli anni settanta, ottanta e novanta ci siamo battute per la libertà di scelta, per il divorzio, per la contraccezione, per i diritti umani delle donne, contro la violenza domestica, per la pace nel mondo. Abbiamo lottato incessantemente, ferocemente, mettendo a rischio la nostra carriera, la nostra vita privata, la sicurezza e la normalità. E abbiamo ottenuto molte conquiste, in tutto il mondo: in Italia, in Serbia, negli Usa, dappertutto.

La seconda ondata del femminismo si è basata fin dall’inizio del diciannovesimo secolo sugli sforzi delle suffragette, che spesso hanno dato la vita per i diritti delle donne. Poi mi sono stancata, e non solo io. Il mondo ha preso una brutta piega, non solo in Serbia negli anni novanta, ma dovunque dopo l’11 settembre!

La globalizzazione della balcanizzazione ha messo a repentaglio tutte le conquiste delle donne e non solo: il terrorismo e la guerra furibonda contro il terrorismo ci hanno regalato stati di polizia distopici, tecnocratici e di destra in cui i diritti umani non sono altro che un modo per dire che non c’è più niente da perdere. All’epoca dicevo alle mie ragazze: dovete lottare adesso, questo è il vostro mondo, quello che vi abbiamo sbadatamente lasciato. Scoprite quante cose avete ereditato dalle vostre nonne, non datele per scontate perché potreste benissimo perderle, a poco a poco, un pezzo alla volta. Sacrificandole alla chiesa, allo stato, ai finanzieri.

Un esempio lampante del nuovo mondo in cui viviamo è la condanna del gruppo punk russo Pussy Riot, dichiarato colpevole di atti blasfemi contro la chiesa e lo stato russi e condannato a due anni di carcere a testa a causa di una performance artistica inscenata in una chiesa. Naturalmente se un gruppo di donne si azzardasse a protestare in una moschea islamica, una dura repressione sarebbe la “normalità”, ma dato che questo episodio si è svolto in una chiesa russa ortodossa, nel mondo esistono ancora alcune voci che collegano questa nuova repressione alle violazioni dei diritti civili verificatesi in passato. Paragonare Putin a Stalin è facile, ma che dire dei lunghi secoli di guerra culturale ed espansionistica dei cristiani, che bruciavano streghe ed eretici sul rogo e torturavano dissidenti e scienziati, o delle guerre per il predominio fra cattolici e protestanti che scossero l’Europa per un secolo? E se è per questo, che cosa succederebbe a un gruppo di artiste punk statunitensi che invadessero un tabernacolo mormone per insultare Mitt Romney? Ne uscirebbero indenni?

Due delle Pussy Riot condannate hanno figli piccoli. Stelle di portata globale come Madonna, Yoko Ono e Paul McCartney hanno scritto lettere aperte e petizioni per la loro liberazione. Perfino Putin, il nuovo vecchio presidente russo, principale bersaglio delle performance di protesta del gruppo, ha auspicato che non ricevessero il massimo della pena, corrispondente a tre anni. Così sono state condannate a due anni.

Le tre donne sono già in gattabuia da sei mesi, ma grazie al loro gesto e al loro coraggio hanno ottenuto fama mondiale. C’è da chiedersi se saranno costrette all’esilio, un po’ come Taslima Nasreen negli anni novanta o come gli artisti e gli scienziati dissidenti russi dei settanta. Il metodo intramontabile che consiste nell’estirpare i riottosi per renderli inoffensivi in un altro paese, in una lingua straniera, funzionerà ancora nell’odierno mondo globalizzato? Oggi costringere qualcuno all’esilio può rendere il malcontento interno ancora più incendiario.

Grazie a Internet, alla globalizzazione dell’impegno, della musica, della cultura e della politica, per le ragazze di Pussy Riot (se non per il loro paese, la Russia, e per il suo capriccioso sultano, Putin) c’è qualche speranza. Putin è uno dei migliori amici di Berlusconi, e il terzo esponente della banda era Gheddafi, ora defunto e scomparso assieme a tutto il suo harem. Fino a un paio d’anni fa, questi tre leader mondiali decisamente maschilisti si davano appuntamento nelle loro lussuose ville per ordire in amicizia i loro piani per un nuovo ordine mondiale con al seguito il loro harem di veline italiane, guardie del corpo libiche e spie astronaute siloviki russe. Le loro donne erano beni di proprietà, anche se spesso indossavano una divisa invece di un burqa. Le Pussy Riot si coprono con un passamontagna rosso quando si esibiscono come punk, come ribelli, come persone che non sono disposte ad accettare in nessun modo queste nuove maniere all’antica del “prima le donne e i bambini”, che poi significa che le donne sono le prime a finire al fresco.

Il loro nome non è volgare, è una provocazione, il rosso delle loro balaklava non è comunista, è il colore del sangue, la loro storia personale non è privata, è politica e ormai le Pussy Riot non rappresentano solo la Russia, ma una generazione di donne giovani, visibili o invisibili, strette dalle catene di questa nuova epoca che vuole distruggere le “ragazze cattive”.

Qualunque cosa facciano, la fanno anche in mio nome!


One response to “Free Pussy Riot – di Jasmina Tešanović”

  1. grazie per aver condiviso questo pezzo. fa piacere leggere qualcosa di ben scritto e soprattutto constetualizzato adeguatamente sul caso pussy riot. sono giorni che non faccio altro che imbattermi in articoli ridicoli che lasciano trasparire la scarsa volontà dei loro autori di documentarsi e ragionare. triste è anche il sessismo più o meno velato dei suddetti, soprattutto alla luce del messaggio delle pussy riot.