Questo post, che non è per niente uno scherzo, è però uno scherzo letterario, perché è un commento in italiano a un libro di 478 pagine in tedesco. Difficile che tra chi lo leggerà siano in molti a poter leggere anche il libro, ma la probabilità che succeda è sempre maggiore dell’eventualità che il libro venga tradotto in italiano.
In un paese come questo, dove la storia dei conflitti viene sistematicamente rimossa e dove gli editori o sono in malafede o tirano a campare, un libro di tale spessore, da ogni punto di vista, difficilmente entra in un programma editoriale, e pure io, lo ammetto, a tratti ho dubitato di riuscire ad arrivare in fondo. Se l’ho fatto è stato per passione. L’ho fatto, ed è stato bene.
Ora ho la mente più lucida, ed è necessario schiarirsela di continuo per restare vivi, sul contesto storico che portò infine una giornalista affermata a entrare in clandestinità, una mente critica e lucida a credere che la via imboccata fosse utile e necessaria, e soprattutto a convincere molti, nonostante la campagna diffamatoria nei confronti di Meinhof, delle sue compagne e dei suoi compagni e della sinistra extraparlamentare in generale, che la RAF fosse "una sorta di autorità. Alcuni non vi si unirono soltanto perché avevano paura, e oggi trasfigurano questo dato di fatto nella lente di un’approfondita analisi" (p. 319).
Lungi dal fare l’apologia della lotta armata, Jutta Ditfurth, l’autrice del libro, sociologa e fondatrice dei Grünen, da cui è uscita nel 1991, ricostruisce nel suo racconto con lucidità le condizioni sociali e politiche in cui Ulrike Meinhof, figlia della guerra e di una famiglia filonazista ripulitasi solo con la (fallimentare) denazificazione, si trova ad agire, e a subire infine le condizioni carcerarie repressive autorizzate dalla Lex RAF — un pacchetto di leggi di cui fa parte l’articolo 129a del codice penale tedesco, equivalente al nostro 270 e che ora una campagna vuole abolire in quanto minaccia alla libera espressione del pensiero.
In effetti, in mancanza dell’opportunità di una traduzione del testo integrale, varrebbe la pena tradurre anche solo gli ultimi capitoli, ma oltre all’attentato a Rudi Dutschke, alle lotte politiche degli anni ’60 e ’70 in Germania, alla formazione e alle attività della "Banda Baader-Meinhof" e al duro carcere d’isolamento in condizioni di illuminazione costante e deprivazione sensoriale culminato con una serie di suicidi quantomeno dubbi, vale sempre la pena di sapere che chi aveva creato le condizioni inumane denunciate dagli articoli e dal film di Meinhof, Bambule (proiettato per la prima volta nel 1994 perché sarebbe dovuto andare in onda dieci giorni dopo che Ulrike entrò in clandestinità), erano gli stessi iscritti al partito nazionalsocialista tedesco che la denazificazione della Germania occidentale, responsabili gli Stati Uniti, si lasciò, più volente che impotente, sfuggire. Jutta Ditfurth descrive il tutto con molta cura, dopo una ricerca di sei anni, e il risultato è un’irata sensazione quotidiana, nota e mai sostenibile del tutto, di più di un’ingiustizia groccata quando non subita.
4 responses to “non solo negli anni di piombo”
Ricommento, perchè a volte le parole hanno un peso spropositato: “Anni di piombo”, così titolava il film… un’amica tedesca mi diceva che la traduzione letterale era …Anni plumbei …
gli anni plumbei del dominio.
Coe sono pesanti le parole, e come possono essere distortee abusate!!
ecco dov’eri finita.credevo fossi dall’altra parte del globo…invece viaggi in profondità…fa freddo?
Potresti tradurlo tu.. 😛
Sull’argomento c’è un testo della Shake edizioni a cura di Primo Moroni: “La parola e la lotta armata” Il libro è la cronaca di un convegno svoltosi nel 97, ultimo intervento dell’amico Primo Moroni. Buona lettura