Steampunk di tutto il mondo, unitevi!
Il multiculturalismo nello steampunk
di Ay-leen the Peacemaker
Seconda parte (qui la prima – qui un PDF con il testo completo impaginato)
5. Graffi sulla lavagna: dove l’universale è personale
Anche se il principio dell’istruzione multiculturale è in circolazione da cinquant’anni, l’influenza del canone occidentale e il sostegno agli ideali dell’occidente sono ancora molto potenti. Per citare un esempio tratto dalla mia esperienza personale, non più di una generazione o di venticinque anni fa le scuole statunitensi erano impregnate di dottrine che sostenevano l’egemonia culturale dell’occidente. Questa situazione si può naturalmente ricondurre a un fattore politico: l’anno in questione era il 1985, e la guerra fredda sembrava non dovesse finire mai. La retorica sull’occidente e/o sul “secondo mondo” sovietico costretti a contrastare le zuffe per il potere che scoppiavano nel “terzo mondo” esercitava ancora un forte impatto sulla struttura globale. Ma anche quando il muro di Berlino è caduto e la configurazione politica mondiale è cambiata i libri di testo non sono stati ristampati da un giorno all’altro. Inoltre, sia a livello locale che a livello nazionale le realtà dei finanziamenti alle scuole, delle risorse disponibili e degli esami di stato contribuiscono a stabilire che cosa debbano o non debbano apprendere i ragazzi. E nei fatti quel che ai miei tempi andava o non andava insegnato mi ha lasciato lacune culturali durature a cui sto ancora cercando di porre rimedio.
Sono una giovane adulta appartenente all’odierna “Generazione Y” (anche nota come “generazione Mtv”). Sono cresciuta in una zona liberal moderata del New England e ho frequentato una scuola pubblica ben finanziata in una comunità borghese a maggioranza bianca. Per tutti i dodici anni della mia istruzione pubblica i miei insegnanti sono stati immancabilmente bianchi, borghesi e perlopiù cristiani (alle superiori ho avuto un professore ebreo). Alle elementari e alle superiori ho imparato che Cristoforo Colombo “scoprì l’America” nel 1492, ma non mi hanno insegnato niente sulle carneficine dei nativi che ne sono derivate, sul ruolo svolto dal “fardello dell’uomo bianco” nella colonizzazione del pianeta o su come la minaccia globale del comunismo, anche detta “teoria del domino”, avesse giustificato le guerre ingaggiate per procura all’estero. L’unico libro di uno scrittore asiatico-americano che abbia letto a scuola è stato Dragonwings di Laurence Yep in terza media. Non ho letto romanzi di autori neri prima di arrivare al primo anno delle superiori, quando ho studiato Con gli occhi rivolti al cielo di Zora Neale Hurston, e fino alla fine della scuola riesco a contare soltanto altri due scrittori neri nel mio curriculum (Uomo invisibile [di Ralph Waldo Ellison] e Il canto del silenzio [di Maya Angelou]). Alle elementari e alle medie ho studiato la storia coloniale americana e la guerra d’indipendenza per tre anni, e il programma comprendeva l’epoca dei Lumi e la Rivoluzione industriale. Sapevo tutto sui drammi di Shakespeare e su Charles Dickens. Ho letto qualcosa di vago sul colonialismo, scoprendo che era stato posto in atto dagli europei nell’“era delle esplorazioni” e nell’Ottocento. Non mi hanno mai fatto studiare niente sul Sentiero delle lacrime e sul Chinese Exclusion Act [la legge del 1882 che vietò l’immigrazione dei cinesi negli Usa] (su questi scoprii un po’ di cose perché passavo al setaccio i capitoli che il mio insegnante ci faceva saltare). Mi hanno parlato dell’Olocausto come di un’atrocità inflitta solo agli ebrei (e non anche agli zingari, ai cristiani antinazisti o agli omosessuali) e tutto quello che mi è stato dato di sapere sull’internamento dei giapponesi [negli Usa] l’ho dovuto alla dissertazione di fine anno di un compagno di classe (il quale ha comunque ammesso che in retrospettiva qualunque cosa gli Stati Uniti gli abbiano fatto non è stato poi così male). Il mio programma di storia dell’ultimo anno di scuola si concludeva con la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda (e seguivo il corso avanzato, quello di livello accademico rivolto agli studenti più bravi).
Alle superiori non ho mai dovuto studiare gli ultimi quarant’anni di storia, il periodo che, in quanto figlia di profughi vietnamiti, era stato il più rilevante per la mia esistenza. A tempo debito ho letto del senso di colpa degli Stati Uniti per la guerra del Vietnam, e anche quei libri erano pieni delle lacune che ho ritrovato per tutta la vita. Mio padre è un reduce di guerra del Vietnam del Sud e la mia famiglia ha legami con gli ambiti governativi sudvietnamiti da entrambi i lati, ma se si vanno a leggere i manuali di storia statunitensi, le complessità della partecipazione dei vietnamiti alla guerra civile scoppiata nel loro paese vengono menzionate solo di sfuggita. In quasi tutti i romanzi e i libri di storia accessibili al pubblico generale (vale a dire in tutti quelli che non sono rinchiusi in qualche biblioteca universitaria), i vietnamiti sono solo gli spietati vietcong, i poveri boat people che chiedono asilo ai paternalistici Usa oppure la massa anonima e implorante in stile Miss Saigon che nel 1975 invase l’ambasciata statunitense. La storia della mia famiglia viene ridotta a un errore politico che portò alla morte dei poveri ragazzi americani. I miei genitori hanno combattuto per un paese e hanno perso, ma nei programmi di storia della mia scuola la documentazione del loro sacrificio è stata messa in disparte. Allo stesso tempo, io sono anche statunitense, ma sono trattata da straniera nell’unico paese che abbia mai conosciuto.
Il mio è stato il primo anno in cui gli studenti di scuola superiore abbiano dovuto superare un esame di stato in storia, letteratura, matematica e scienze per ottenere il diploma. Sebbene l’obiettivo di questo sistema statale fosse quello di garantire a tutti un pari livello di istruzione, il risultato è stato la tecnica copia e incolla dell’insegnamento finalizzato al superamento di una prova. I nostri insegnanti misuravano sistematicamente con il righello quel che scrivevano sulla lavagna e noi studiavamo quel che dovevamo sapere per essere promossi. E quel che dovevamo sapere non era determinato dalla nostra curiosità o dalle intenzioni del nostro insegnante ma dal muto metro di misura del governo. Ancora oggi la pubblica istruzione viene usata come strumento per diffondere opinioni parziali favorevoli alla cultura dominante, come nel caso del divieto d’insegnamento della storia latinoamericana agli allievi latinoamericani delle scuole dell’Arizona o dei libri di testo giapponesi che minimizzano atrocità come lo stupro di Nanchino commesse dalle loro truppe nel corso della seconda guerra mondiale.
Lo studio è un aspetto che viene considerato centrale nella subcultura steampunk. Gli steampunk parlano del loro amore per lo studio, di condivisione delle informazioni, di una comunità radicata nella conoscenza dell’antichità e di saperi oscuri riportati alla luce per essere apprezzati ancora oggi. Ma quanta parte di queste conoscenze riportate alla luce si conforma agli ambiti politico-geografici che ci hanno insegnato ad apprezzare e quanta con quelli con cui non siamo mai venuti a contatto? Negli ultimi anni al crescente interesse per lo steampunk ha contribuito anche la nostalgia per la cultura del passato. In particolare, molti si lasciano andare alla nostalgia – per quel che hanno imparato, per quel che gli è stato insegnato, per quel che in passato era considerato “la norma” – nei tempi difficili, di preoccupazioni economiche, politiche e sociali. E che cosa ci è stato insegnato quando eravamo ragazzi, vale a dire per buona parte del ventesimo e in questi primi anni del ventunesimo secolo? Ci è stato insegnato il valore e il trionfo dell’egemonia europeo-occidentale sul non-occidente, sotto forma di destino manifesto, di lotta contro il comunismo o di guerra al terrore.
D’altra parte, proprio l’istruzione può essere il metodo grazie al quale il carattere sovversivo dello steampunk potrà porsi in primo piano. L’aneddoto che ho appena raccontato ha per me un forte valore personale, ma sono certa che molti altri si siano resi conto come me del fatto che certe cose imparate da bambini, perché gli erano state dette da diversi adulti e dalla società, non corrispondevano interamente alla verità. Solo quando si riconosce il tacito potere che sta, più o meno volontariamente, alla base del funzionamento dei sistemi sociali si può cominciare a imparare davvero per colmare le proprie lacune culturali. Non solo su come si portava la barba negli anni quaranta del diciannovesimo secolo o sulle varie fasi di sviluppo del motore a vapore, ma anche sulla storia dei regni africani prima dei contatti con gli europei o sulla letteratura mediorientale dell’Ottocento. Per questo ritengo che il multiculturalismo – una forza capace di sovvertire le rovine mentali della storia – debba essere una parte integrante dell’evoluzione della definizione sociale dello steampunk.
6. L’intersezione fra steampunk e non occidente: integrazione dell’egemonia o ribellione giustificata?
Finché le riforme scolastiche che promuovono programmi più variegati non verranno poste in atto, tuttavia, gli effetti dell’egemonia culturale europeo-occidentale nell’ambito della pubblica istruzione costituiranno un ostacolo ogni volta che gli steampunk tenteranno di trovare alternative multiculturali e non occidentali per la loro subcultura. A quanto ho potuto osservare personalmente, l’intersezione fra steampunk e multiculturalismo si manifesta soprattutto in due modalità specifiche:
1) nel modo in cui i gruppi marginali vengono percepiti e trattati all’interno della comunità, come aspetti complementari della subcultura anziché come gruppi già esistenti al suo interno;
2) nel modo in cui i partecipanti bianchi si confrontano con lo steampunk non occidentale e non eurocentrico, con una gamma di operazioni che può variare dalla cooptazione di un immaginario tesa a promuovere una sovversione “ribelle” fino alla reificazione nostalgica e alla completa negazione che quella cultura possa avere qualcosa a che fare con lo steampunk. In tutti questi casi, il non occidentale viene considerato complementare, supplementare, rinchiuso in compartimenti stagni ed escluso in tutte le forme di dialogo dal più centrale occidente.
Quanto al coinvolgimento degli steampunk di colore, ho già commentato in merito alla mancanza di una loro partecipazione visibile nei miei resoconti sulla Steampunk World’s Fair e su altre manifestazioni. Eppure esistono siti e gruppi steampunk gestiti da persone di colore e alcuni di questi si incentrano su tematiche non occidentali: Edwardian Promenade, Silver-Goggles, Afro-Steampunk nella comunità Black Science Fiction su Ning, il Moorwing Archive di Steampunk Empire e Steampunk Nusentara non sono che alcuni esempi. Questo contrasto fra quel che leggo in rete e quello che vedo di persona mi fa chiedere quanto si sentano accolti gli steampunk di colore negli spazi fisici dove, diversamente che nella loro identità virtuale, la loro condizione minoritaria è immediatamente identificabile.
Inoltre, una tipica argomentazione difensiva usata per rispondere all’osservazione che la rappresentazione dello steampunk è dominata dalla cultura bianca è che “non possiamo costringere le persone di colore a farsi piacere quello che piace a noi”, o in alternativa si invoca l’istituzione di “quote per le minoranze” nella comunità steampunk. Queste due reazioni sono entrambe tattiche diversive che si astengono da un’analisi onesta dei motivi per cui in alcuni casi le persone di colore e di origine non occidentale non sono attratte dallo steampunk oppure esitano a rivelare la loro differenza razziale o culturale nella comunità. Uno dei motivi che ho evidenziato sopra (che la forma attuale dello steampunk si rivolge all’egemonia europeo-occidentale) ha un’ulteriore implicazione: l’impressione che i non occidentali e le persone di colore hanno dello steampunk è che questa tendenza (in maniera involontaria quando non plateale) prediliga un pubblico bianco ed eurocentrico.
Pertanto, un’altra spiegazione trascurata in precedenza sullo scarso coinvolgimento degli individui marginali è data dalla possibilità che gli individui di colore e i non occidentali siano molto interessati allo steampunk, ma scelgano di non entrare a far parte della comunità in quanto non la considerano un luogo sicuro. L’esempio più immediato è la cooptazione dello steampunk da parte di vari gruppi conservatori di destra sostenitori della supremazia bianca come quelli che si raccolgono intorno ai forum per la supremazia bianca di Stormfront. Meno immediate ma comunque rilevanti sono le conversazioni sullo steampunk che si svolgono tra gli appassionati di fantascienza di colore al di fuori degli spazi della comunità steampunk. Nel suo saggio Cause I’m Nerdcore like that: Towards a Subversive Geek Identity (“Perché sono davvero nerdcore: verso un’identità geek sovversiva”), Garland Grey osserva che le persone emarginate sono coscienti della loro condizione marginale negli “spazi nerd” anche quando si suppone che gli spazi a cui accedono accettino gli estranei: “Ogni volta che entriamo in una comunità nerd lo facciamo sapendo che potrebbero urlarci contro, che potrebbero minimizzare quel che diciamo o annoiarci fino alle lacrime con discorsi inutili, che la nostra legittimità e le nostre motivazioni potrebbero essere messe in discussione o che potremmo essere semplicemente ignorati”. Per citare un esempio più pertinente allo steampunk, naraht descrive il proprio sconforto all’idea di entrare a far parte della comunità steampunk come persona di colore: “Non che infilare l’iPod in un involucro di ottone debba essere intrinsecamente ideologico, ma la glorificazione degli esploratori e degli avventurieri di stampo tardo-ottocentesco non si può guardare come un fatto a sé stante. Nel profondo, magari senza neanche andare a scavare troppo, lo steampunk dà la sensazione che tutto sommato l’esistenza di un impero fosse una bella storia. Forse per qualcuno lo era, e chissà come mai c’è chi ancora si lascia cullare dalla fantasia di poter essere stato uno dei pochi privilegiati”. E come ben sanno molte persone appartenenti a un gruppo marginale, fingere di essere “uno dei pochi privilegiati” può sembrare ancora più in malafede quando non si viene trattati da privilegiati al di fuori delle comunità di appassionati.
In effetti, se gli osservatori esterni dello steampunk si chiedono se questo stile scelga di mitizzare un impero anglocentrico, i discorsi che circolano sullo steampunk giustificano questi dubbi. Si pensi ad esempio all’affermazione che lo steampunk dev’essere ambientato esclusivamente nell’Inghilterra vittoriana. Questa definizione sta venendo confutata rapidamente nei dibattiti sullo steampunk, in quanto esclude molte opere letterarie considerate steampunk come Boneshaker [di Cherie Priest], Leviathan [di Scott Westerfeld], Girl Genius [di Phil e Kaja Foglio], Clockwork Heart [di Dru Pagliassotti] e Alchemy of Stone [di Ekaterina Sedia]. D’altronde, un’altra conseguenza del privilegio assoluto riservato all’Inghilterra vittoriana consiste nell’assunto che la società inglese vittoriana fosse di pelle bianca, da cui deriva la superiorità della pelle bianca nell’imponente gerarchia dell’impero inglese. Sebbene altri paesi si siano imbarcati in imprese imperialistiche e colonialistiche, nessun impero è mai stato vasto come quello britannico. A questo si aggiunga che molti di questi altri paesi (compresi quelli europei) avevano una popolazione visibilmente più eterogenea (o non bianca, come nel caso del Giappone). Naturalmente, l’idea che nell’Inghilterra vittoriana non vivessero persone di colore è falsa, ma nella società della Gran Bretagna vittoriana la loro esistenza non veniva riconosciuta pubblicamente come in altre società. Quando dunque si afferma che l’“Inghilterra vittoriana” è l’unica ambientazione possibile dello steampunk, si associa all’idea di steampunk una visibilità maggiore dei bianchi anglofoni nella costruzione dell’impero e un predominio della pelle bianca.
Intrinseco allo steampunk è anche il doppio metro di misura con cui si celebra la creatività ottimistica e bizzarra imitando gli “stereotipi” vittoriani. Nel celebre test online “Qual è il tuo stile steampunk?” linkato da steamfashion, per esempio, gli autori osservano che i tipi vittoriani rivestono un ruolo primario nella creatività di questa subcultura e in ciò che viene in essa accettato. “Quasi tutte queste figure sono ispirate a determinati personaggi o immagini della storia vittoriana o della letteratura steampunk, che si suddividono in una serie di stili accomunati da certe caratteristiche”. I risultati del test dimostrano quanto i tipi vittoriani europei bianchi siano giocosi, interessanti ed emozionanti: l’aristocratico, lo scienziato, l’ufficiale, l’esploratore. D’altro canto, non sono neanche prese in considerazione rappresentazioni che non si conformano all’estetica europeo-occidentale, e il motivo di questa omissione è evidente. Nella letteratura steampunk, infatti, i tipi vittoriani eurocentrici sono ritratti come positivi e gradevoli, mentre quelli non europei coincidono tuttora con stereotipi negativi: la donna drago e la bambola di porcellana/geisha, il selvaggio, il mistico ingannatore, il domestico, l’usuraio, la principessa indiana. Dal momento che nello stile steampunk sono presenti numerosi elementi letterari pulp/steampunk, nello steampunk la creazione di personaggi non stereotipati non è neanche presa in considerazione. Questa mancanza non è del resto ritenuta problematica fintantoché i partecipanti si attengono a un risultato eurocentrico. Pertanto lo steampunk favorisce la promozione di tropi europeo-occidentali descrivendoli come desiderabili e ignorando allo stesso tempo qualunque possibilità di creare modelli positivi analoghi non occidentali nell’ambito del gioco creativo.
La principale modalità di confronto dei non occidentali e delle persone di colore con lo steampunk consiste quindi nel loro adattamento al ruolo del conquistatore, nell’“assimilazione” all’interno dell’egemonia europeo-occidentale. Tale assimilazione può essere riadattata in un atto di ribellione contro la società generale (come nel caso di anachronaut) o celebrare la capacità dello steampunk di includere le minoranze. D’altra parte, l’atto dell’assimilazione riecheggia spiacevolmente casi storici di assimilazione imposta dalla società ai gruppi emarginati. In tal caso, dunque, lo steampunk non si ribella ai canoni di conformità della cultura dominante ma li imita nel proprio microcosmo. La teoria del “melting pot” viene rimessa in scena ancora una volta, stavolta negli spazi del gioco proprio come prima nella più vasta società.
Quel che potrà impedire allo steampunk di diventare un altro esempio di egemonia culturale europeo-occidentale sarà l’atteggiamento sfrontato e autoriflessivo assunto dai partecipanti al movimento steampunk nei confronti della storia e dell’interpretazione che essi ne danno. Un poster creato da Brute Force evidenzia questa consapevolezza nel modo più sardonico (e acuto) possibile:
[Gruppo di perlustrazione degli ufficiali britannici | La resistenza è dannatamente inutile… sarete colonizzati]
Grazie a tripletlads
Questa consapevolezza ironica delle devastazioni causate dall’impero nel corso della storia è uno degli aspetti che distinguono lo steampunk da un’interpretazione acritica del neovittorianesimo.
Di fatto, come sottolinea lo studioso di steampunk Mike Perschon nel suo saggio Leaving London, Arriving in Albion (“Lasciare Londra, arrivare ad Albione”), l’estetica steampunk è in costante evoluzione al di fuori del territorio londinese:
“È rilevante che lo steampunk lasci Londra? Decisamente. Se il successo dell’open-source ci insegna qualcosa, si tratta del fatto che nell’era dell’informazione la morsa proprietaria produce la morte di una tecnologia. Se si vuole che lo steampunk fiorisca bisognerà che sia liberamente applicabile dovunque vi sia interesse per aggeggi e ingranaggi, negli spazi incerti compresi tra storia e memoria, in qualunque luogo il sogno di viaggiare su un dirigibile ignori il fallimento dei Graf Zeppelin. Questa libertà non implica che si debba ricadere nel frivolo o nel futile. Un buono steampunk può coniugare le storie più avventurose con interrogativi sull’identità, sulla guerra, sulla nazionalità e sulla tecnologia… Inoltre, l’emancipazione dagli stretti corsetti della società vittoriana permette allo steampunk di analizzare in maniera giocosa quella che potrebbe rivelarsi una serie interminabile di mondi, tempi e tematiche”.
Sebbene il giudizio di Perschon sia molto positivo e ottimistico, i mezzi impiegati dallo steampunk per diversificare la propria definizione possono essere problematici. Anche se questo stile promuove una visione di parità culturale, il messaggio diventa meno incoraggiante quando viene veicolato tramite canali che ancora ratificano il concetto di supremazia bianca all’interno della comunità. Le osservazioni dell’editoriale di The Gatehouse che negano la presenza di razzismo nel numero della rivista dedicato al vittorientalismo non sono che un esempio (e le implicazioni di quell’edizione sono già state lungamente esaminate dalla sottoscritta e da svariati altri siti e osservatori steampunk). L’articolo pubblicato da G.D. Falksen su Tor.com “The World is Not Enough… but it is Such a Perfect Place to Start” (“Il mondo non basta… ma è un posto meraviglioso da cui cominciare”) è un istruttivo testo di partenza sulle possibilità dello steampunk non occidentale, ma il titolo e l’autore dell’articolo alludono a un rapporto imperialistico tra occidente e non occidente nella comunità steampunk, in quanto un uomo bianco vi parla in nome delle persone di colore e della loro storia (naturalmente questa prospettiva è controbilanciata dai contributi di Jha Goh a Tor.com). Gli aspetti multiculturali sono dunque tipicamente trattati come integrazioni della storia occidentale controllate dalle autorità bianche, e per estensione si può affermare che nello steampunk il non occidentale non conta a meno che non possa essere associato al mondo occidentale. In molte narrazioni steampunk a sfondo storico il mondo non occidentale esiste in rapporto (quando non in subordinazione) all’occidente invece di risultarne indipendente e di essere trattato con pari rispetto.
Attingendo allo steampunk multiculturale si rischia inoltre di incoraggiare l’appropriazione culturale, soprattutto se a “ispirarsi” agli stili non occidentali è uno steampunk bianco. L’appropriazione culturale è un tema complesso, e ogni volta che gli steampunk si dedicano alla danza del ventre steampunk (su cui mi sono già dilungata) e ad altre forme di steampunk non occidentale i risultati sono diversi. Come osserva l’artista canadese Richard Fung nella sua teoria dell’appropriazione culturale, l’interesse per i territori non occidentali è stato generato anche dai vantaggi economici e politici che essi offrivano al paese/nazione dei colonizzatori:
“Il cibo, la religione, la lingua e l’abbigliamento rivelano tutti contatti con un mondo più vasto di cui fa parte tanto il nostro vicino di casa quanto i centri imperiali più distanti. Non esistono limiti netti che segnalano dove finisce una cultura e dove ne inizia un’altra. Ma sebbene alcuni aspetti di questa commistione si possano celebrare come scambi, molti altri sono l’effetto di un dominio. La missione di istituire l’egemonia culturale nel contesto coloniale, ad esempio, implica che i sistemi sociali, economici e culturali dei subalterni devono essere soppiantati o imbrigliati dagli esponenti del potere dominante. Per i popoli nativi del Canada questo ha prodotto un processo di assimilazione spesso violento associato alla commercializzazione di una differenza superficiale a scopo di lucro (per il settore turistico) o per un tornaconto politico (politiche ufficiale del multiculturalismo) […]
Il colonialismo ha agito in modo diverso in Africa, in Asia e nelle Americhe e ha avuto manifestazioni variabili a seconda della potenza coloniale del caso. Per asservire e sradicare la popolazione è convenuto rappresentare l’Africa come un luogo privo di cultura e di storia proprie, cosa che ovviamente ha implicato l’espunzione dell’Egitto dal continente. D’altra parte, i contributi estetici dell’India, della Cina e del Giappone erano da tempo valorizzati in Europa e furono i prodotti della loro cultura e della loro agricoltura a motivare e a giustificare il colonialismo in quelle zone”.
Se è vero che nello steampunk esistono siti e pubblicazioni dedicate prettamente all’osservazione della cultura e delle storie non occidentali, molte rappresentazioni culturali non occidentali hanno condotto alla reificazione della cultura non occidentale in forma di accessori di moda in stile (su Etsy si trovano centinaia di esempi del genere ispirati all’oriente, alla cultura africana e ai popoli nativi). Anche se in alcuni casi l’apprezzamento degli aspetti non occidentali nello steampunk può essere positivo, il rapporto fra questo apprezzamento e il consumismo riduce le singole culture a gingilli che chiunque può produrre e acquistare.
Eppure l’ottimismo di Perschon sul ricorso allo steampunk multiculturale non si può liquidare su due piedi, e io sono d’accordo con lui. Ho già citato diversi siti che stanno proponendo attivamente prospettive non occidentali. Da quando lo steampunk è diventato un mezzo narrativo usato per mettere in discussione e rivalutare le oppressioni del passato, si osservano con frequenza crescente esempi eccellenti di steampunk multiculturale. Storie steampunk come “Moon Maiden’s Mirror” di Joyce Chng, “Pimp my Airship” di Maurice Broaddus, “The Last Rickshaw” di Stephanie Lai, Wonderdark, il romanzo autoprodotto di Dazjae Zoem, e Virtuoso, il fumetto online di Jon Munger e Krista Brennan sono tutte opere incentrate su esperienze non occidentali che si svolgono a prescindere dall’occidente. “Between Islands” di Jha Goh è un racconto politico che si svolge in alto mare (e nell’alto dei cieli) e in cui svariati personaggi appartenenti a diverse culture non occidentali arrestano il seme dell’imperialismo britannico prima che metta definitivamente radici nella loro terra. Carolina Free State reinventa un mondo di nativi americani che si sviluppa dopo l’espulsione dei colonialisti europei dai loro territori. Data inoltre la tendenza della subcultura steampunk a coinvolgere artisti non steampunk nel suo ambiente, sono considerate assolutamente steampunk anche opere che sovvertono le norme europee per creare una voce a disposizione dei subalterni come quelle del nigeriano-britannico Yinka Shonibare MBE e dell’artista nativo americano Kent Monkman.
Conclusioni: perché il multiculturalismo è steampunk
Nel complesso, nonostante le attuali pecche della sua attuazione pratica, l’ingresso del multiculturalismo nello steampunk è un gradito sviluppo di questa subcultura. Non solo: la sua promozione nell’ambito di questa subcultura assolve a un requisito di sovversività che già molti associano allo steampunk. In aperta ribellione contro molte idee oppressive dell’epoca vittoriana, il ricorso dello steampunk al multiculturalismo può contrastare le tendenze imperialistiche della nostra istruzione. Inoltre, il collegamento fra l’interesse per lo steampunk e gli influssi imperialistici del sistema scolastico dimostra che la comunità steampunk non può essere collocata su un piedistallo immaginario e restare esclusa dalla vita reale. Ma che significato ha oggi il multiculturalismo per la comunità steampunk, e che significato avrà in futuro?
A chi tratta lo steampunk come un hobby e non ha voglia di mescolare la politica con gli interessi creativi vorrei dire che queste idee non sono state buttate giù per guastarvi la festa o per farvi sentire in colpa. Ma è un fatto indiscutibile che non si può negare di far parte, che tutti noi facciamo parte, di un vasto meccanismo culturale costruito generazioni e generazioni fa: un sistema culturale che ha influito sul nostro modo di pensare e di relazionarci agli altri. Negando il fattore politico ci si espone sempre al rischio di perpetuare meccanismi socioculturali di oppressione ogni volta che ci si confronta con qualcosa di multiculturale, vale a dire con qualunque cosa che sia esterna alla nostra esperienza e alla nostra educazione. Questo non vale solo per gli steampunk che si identificano con la cultura dominante, ma anche per le minoranze esterne a questa cultura.
La scelta di “restare apolitici” restringe il campo a due sole opzioni: fare esclusivamente “quel che si conosce” – i bianchi anglofoni che si concentrano soltanto sullo steampunk britannico, gli asiatici e le persone di origine asiatica che si concentrano su stili orientali ecc. – oppure usare lo steampunk per perpetuare tutti gli “ismi” che ci riducono a sostenitori dell’imperialismo, a persone che scelgono di appoggiare tutte le vicende problematiche avvenute nel corso del diciannovesimo secolo. Se queste opzioni appaiono estreme è perché lo sono. Che ne siano consapevoli o meno, quasi tutti gli steampunk si muovono entro una sfera sociopolitica. Perfino le scelte più semplici come quella di agire in maniera razzista/sessista/classista, di diffamare certi personaggi, di impersonare uno stereotipo o anche solo di chiedersi se “il razzismo esista” sono decisioni politiche. In generale gli steampunk, in nome di una benintenzionata cortesia, si orientano verso una mentalità politica progressista anche se non ne prendono coscienza.
A chi tratta lo steampunk come un hobby e rifiuta la posizione “apolitica” vorrei ricordare che quando si vive in un mondo multiculturale – nel mondo odierno, nel nostro mondo – disprezzare le rappresentazioni o i messaggi oltraggiosi in nome dell’arte o del gioco fini a se stessi significa non cogliere il senso della creatività, non comprendere che si tratta di un mezzo espressivo. Che cosa volete che lo steampunk esprima di voi? E che influsso avrà questa espressione sugli altri? Rispondere a queste domande non è facile, ma quel che conta è il percorso che si segue per trovare le risposte.
Agli autoproclamati punk dello steampunk vorrei dire che il multiculturalismo è un mezzo di ribellione contro quelle oppressioni sistematiche sotto aspetti tanto coinvolgenti e costruttivi per i seguaci dello “stile di vita steampunk” quanto può esserlo farsi da sé il proprio guardaroba, sostenere una causa ambientalista o scagliarsi contro l’autorità centralizzata. State lottando per la libertà, e quale libertà può essere più grande di quella di lottare per un mondo più eterogeneo e accogliente di quello in cui siamo cresciut*?
Per finire, siamo tutt* seguaci del multiculturalismo. All’inizio di questo saggio ho osservato che nella definizione del termine “multiculturalismo” rientra ben più della razza e della cultura. Non siamo fotocopie di esseri umani. Ognun* di noi proviene da un ambiente diverso e si colloca in un punto differente nello spettro dei generi, delle classi, delle razze, delle abilità, dell’età e delle culture. La diversità sta aumentando sia a causa della globalizzazione che della localizzazione: le barriere del mondo vengono abbattute l’una dopo l’altra dalle migrazioni di massa e dalla desegregazione della società, mentre a livello locale si sceglie di mantenere e di promuovere le singole culture ovvero di assimilarne altre. E via via che la globalizzazione avanza, gli usi e i costumi che un tempo erano considerati differenti e stranieri cominciano a risultarci familiari. La nostra coscienza del mondo diventa più cosmopolita e il nostro confronto con il pianeta si fa più globale tramite Internet.
Tutta questa enfasi sulla globalizzazione e sul ruolo sempre più rilevante della tecnologia sembra parecchio cyberpunk, non è vero? Si aggiungano svariati sistemi di controllo generalizzato, vasti paradigmi che influenzano le nostre relazioni di ogni giorno, una tecnologia di massa che perpetua i nostri stili di vita interconnessi e trasmette le nostre idee in un batter d’occhio: nell’ottica dell’evoluzione delle subculture, l’immaginario steampunk sta venendo creato attraverso una realtà cyberpunk. Lungi dall’essere il nucleo di ipocrisia dello steampunk oppure una bestemmia “antisteampunk”, questo non è altro che un segnale dell’evoluzione sociale. Volete un sogno steampunk solare e in toni seppia? Questa è la vostra opportunità di plasmarne uno prima che venga soffocato dalle catene del passato, usando la mentalità e la tecnologia del presente.
Pertanto, il multiculturalismo cattura un sentire comune espresso da tanti siti, comunità web, articoli, interviste, documentari e fanzine steampunk. Stiamo creando oggi il futuro di ieri. Stiamo smontando pezzo per pezzo il vecchio per confrontarci con il nuovo. Stiamo ricostruendo il passato per costruire un futuro migliore.
L’era steampunk potrà essere per me, per te e per quella persona dall’altra parte dell’aethernet e all’altro capo del pianeta.
E sta succedendo ora.
(Questo saggio è comparso in inglese sui blog Free the Princess e Doctor Fantastique’s Show of Wonders e sul sito dello Steampunk Magazine, e la sua traduzione italiana viene pubblicata con il permesso dell’autrice con una licenza Creative Commons non commerciale condividi allo stesso modo. Se preferite leggerlo più comodamente e per intero su un impaginato, qui c’è un PDF.)
One response to “Steampunk di tutto il mondo… #2”
[…] “Steampunk di tutto il mondo, unitevi!” is also available to read on reginazabo’s blog (at Part #1 and Part #2). […]