come si diventa un(‘)intellettuale


Ho messo le mani sul primo dei Bianciardini, inediti di Bianciardi
pubblicati nella collana “almeno un cent”, un’iniziativa di Marcello Baraghini e di riaprireilfuoco.org che
verrà presentata l’8 settembre a Elmo di Sorano (GR) durante il 5° Festival della letteratura resistente.

Il testo è liberamente
scaricabile
, e i libretti, di 16 pagine, non saranno distribuiti nelle
librerie. L’invito è a ordinarli e diffonderli il più possibile, e io
non vedo l’ora di mettere le mani sugli altri tre numeri.

Mi resta il
dubbio di come sia stato possibile risolvere il problema dei diritti
che qualche tempo fa ha costretto stampa alternativa a mandare al
macero Bianciardi com’era,
ma a parte questo, che la voce di Bianciardi circoli liberamente, su
rete e su carta uso mano, mi riapre il cuore e mi fa pensare che
davvero l’editoria italiana possa, a volte, non essere asfittica e
patinata.

E
però una critica da fare ce l’ho, perché se sono una fan dei Millelire
e di tutte le idee che garantiscono la circolazione della cultura
critica, Come si diventa un intellettuale non mi ha fatto
impazzire: sarà che quando hai letto i capolavori, le opere minori ti
deludono sempre un po’. A ogni modo, la divisione in classi degli
aspiranti intellettuali proposta da Bianciardi in questo articolo non
mi convince, e non mi pare che contribuisca all’effetto ironico, che in
generale un po’ manca. Se ci fossero indicazioni bibliografiche di
qualche tipo (Quando è stato scritto l’articolo? È uscito su qualche
rivista o è proprio inedito? Doveva essere continuato o era considerato
finito? eccetera eccetera), potrei contestualizzare il testo, dargli un
valore filologico, di conoscenza dell’autore, ma no: nulla si sa,
tranne che è un testo inedito. E questo è il problema, spesso, dei
libri fatti in economia: che cioè il basso prezzo si ottenga non solo
con la carta economica e la legatura autocopertinata, ma anche con una cura redazionale un po’ approssimativa.

Del resto mi sta bene che un’opera minore possa
deludermi, considerati l’entusiasmo e l’emozione che ho provato a
leggere le opere
maggiori di Bianciardi. Molto meglio così che trovarti di fronte a
un’opera citata in tutte le salse, di due autori giustamente venerati
per la loro opera editoriale, e scoprire che io, quando lavoro, cioè in
gran parte della mia giornata, dovrei scomparire. Questo
dicevano Fruttero & Lucentini in un loro scritto del 1989 pubblicato ne I ferri del mestiere, e se i loro esercizi di traduzione sono
gradevoli da leggere e contengono vari spunti interessanti, la loro è
comunque una visione da redattori più che da traduttori, una visione
per cui il traduttore è “un asceta, un eroe essenzialmente
disinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di
pane e a scomparire nel crepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica
impresa è finita. Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante
della letteratura”
. Disinteressati sarete voi! È così che “fanno cultura” (nel senso della cultura ufficiale, va da sé) soltanto quelli che si possono permettere, con i furti in banca o
molto più probabilmente con la borsetta di mammà, di dare tutti se
stessi in cambio di un tozzo di pane e scomparire nel crepuscolo. Mi
richiamo di nuovo, a rischio di
abusarne, a Bianciardi (a La vita agra) perché le sue parole, del 1961-62! sono migliori di qualunque improperio contro l’esaltazione dell’invisibilità del traduttore:

Il
caldo te lo paghi da te. Ti paghi il caldo, l’usura della macchina e
del nastro, tutto quanto. È un lavoro che può rendere, ma nessuno te lo
invidia né cerca di togliertelo, perché è parecchio faticoso e non
piace. Non rientra nel gioco dei rapporti di forza aziendali, non dà né
potere né prestigio, non è a livello esecutivo, e perciò te lo
lasciano, e ti lasciano in pace. Al massimo ti potranno sollecitare, ti
potranno telefonare. Il lunedì per esempio è giornata di assillo, di
tafanamento, e per metà ti va persa al telefono, perché quelli
ritornano riposati da due giorni di festa, e si danno da fare, debbono
dare la sensazione di star lavorando seriamente, e così per prima cosa,
alle nove, telefonano sollecitando.

“Allora, a che punto siamo? Mi raccomando, al massimo entro il trenta, non oltre”.
Dopo
tutto è questo il loro compito, telefonare, tafanare i collaboratori. E
non si può mandarli al diavolo, o farsi negare, o non rispondere al
trillo. Uno dei miei punti di forza — lo ripetevo sempre ad Anna —
doveva essere la puntualità nelle consegne. Altro punto, non rifiutare
mai nessun lavoro. Il lavoro e la salute sono sempre i benvenuti, e chi
li disprezza e li guasta è un mentecatto. Terzo punto, non andare mai a
letto prima di aver finito un certo numero di cartelle a macchina.
Venti cartelle ogni giorno, compresa la domenica. Venti cartelle di
duemila battute. Tutti i giorni, perché poi bisogna calcolarci anche il
tempo per rileggere, tre o quattro giorni al mese in tutto, e un giorno
che va perduto per fare il giro delle consegne, alla fine del mese.

Sono
perciò venticinque giorni a cartelle piene, cinquecento cartelle
mensili complessive, che a quattrocento lire l’una danno duecentomila
lire mensili. Sessanta vanno a Mara, trenta al padrone di casa, dieci
fra luce gas e telefono (e d’inverno anche di più, perché bisogna
tenere acceso quasi tutto il giorno, mentre d’estate si consuma meno
luce, ma bisogna lavarsi più spesso, e allora quello che hai
risparmiato di lampadine ti va per lo scaldabagno), venti di rate fra
mobili vestiti e libri (si potrebbe anche non leggere, ma i vocabolari
li devi comprare), quindici fra sigarette, caffè, giornali e qualche
cinema, cinque fra pane e latte, e ti restano sessantamila mensili per
il companatico e gli imprevisti.

Se tutto va bene. Perché ci
sono certi che il lavoro lo pagano metà subito e metà alla
pubblicazione, che può essere anche due, tre anni dopo la consegna, e
così una parte di capitale rimane ferma, e nel frattempo il costo della
vita è aumentato, la moneta si è svilita. […]

Insomma sono duecentomila lire teoriche, su cui gravano parecchi incerti.

Era
il 1961. Quasi trent’anni dopo Fruttero & Lucentini esaltavano la condizione
del traduttore come quella di un “cavaliere errante della letteratura”.
Possibile che ancora oggi ci sia chi si fa un vanto di questo appellativo, di questa equiparazione dell’intellettuale all’aristocratico decadente?

Il
mio lavoro è e rimane un lavoro da artigiano, un lavoro minuto, oscuro
e ascientifico, sempre approssimativo. Non è un mestiere avventuroso;
le sue gioie e i suoi dolori dall’esterno si vedono assai poco. Il
meglio che ti senti dire, quando hai finito, è: «Non sembra nemmeno
tradotto». E cioè tu sei tanto più bravo quanto più riesci a sparire, a
non far credere che ci hai messo le mani.

(Luciano Bianciardi, Il mestiere del traduttore)

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2 responses to “come si diventa un(‘)intellettuale”

  1. Bianciardi è sempre una bella scoperta. Io lo conobbi dalla biografia di Cacucci (se non erro) e la prima impressione che ebbi è che non si trattava di un personaggi facilmente inquadrabile, di sicuro non un “intellettuale” nelle defizioni del suo tempo. A volte l’editoria italiana riserva belle sorprese.

  2. Stessa citazione da “La vita agra” che ho fatto il giorno del mio compleanno, tanto per ricordare in che condizioni sono/siamo. Bello vedere con quanta passione si riesce a ricordarlo tra i lettori, il Bianciardi, a dispetto di qualsiasi politica editoriale.