resistere all’editoria


Nell’ultimo mese mi sono spesso confrontata sulla resa di un
particolare romanzo con una casa editrice per bambini con cui lavoro da
molti anni e che generalmente tratta i testi tradotti come materiale
grezzo da rivedere e da ravvedere come le sembra più opportuno per
adattarlo alla sua idea del pubblico di bambini cui si rivolge: alla
fine, come di frequente accade, i suoi libri sembrano scritti tutti
dalla stessa mano, come testi prodotti da una distopica macchina
scrivi-romanzi del Reparto Finzione di 1984.

Per la suddetta casa editrice ho tradotto nel corso dell’ultimo anno
due romanzi: di questi uno era una storia d’avventura che è rimasta
abbastanza indenne all’omologazione
stilistica di stampo deamicisiano uscita dalle fauci della redazione —
in fin dei conti, per fortuna, il suo succo stava nella trama più che
nello stile; l’altro romanzo si basa invece più sull’ironia e su una
sintassi volutamente ingenua e comicamente ridondante, e qui sono sorti
i problemi: mi sono sentita rimproverare perché avevo tradotto con lo
stile dell’autrice invece di avvertire subito il sommo editor
dell’incompatibilità di quelle sue scelte grammaticali con il
"pubblico" della casa editrice. Avrei dovuto cambiare, adattare,
conformare, mica tradurre. Io avevo trovato quello stile molto gustoso,
e avevo fatto di tutto per mantenerlo: c’erano frasi scorrette dal
punto di vista dei manuali di scrittura, certo, ma era proprio lì il 
sapore della lettura, quello che mi aveva fatto ridere a più riprese a
leggere il testo inglese.


Poi ho visto le bozze, e mi sono accorta che stavolta la redazione
si era spinta ben oltre l’omologazione: quella c’era, in pieno, ma non
contenti gli editor avevano deciso di fare tagli alle battute, di
limare, levigare, e visto che si trovavano anche di intervenire dove
non era necessario (finché, scelte opinabili a parte, la mia
protagonista che sceglieva di diventare una pirata non si è trovata a essere un pirata).
Da quella Alice nel paese dei pirati che era il libro nel testo
originale, è uscito uno scialbo libro d’avventura che dovrà il suo successo a un’eventuale riduzione cinematografica. Se
penso al difficile rapporto
di certe autrici con le correzioni, mi auguro soltanto che nessuno
racconti all’autrice del romanzo cos’è successo al suo libro in
traduzione.

Spesso quando parlano della mancanza di lettori in Italia, gli editori
affermano che alla lettura bisogna educare, che l’uscita dalla crisi
(ma quale crisi,
poi?) dipende dall’educazione dei più piccoli alla lettura. Ma se si
crede che basti stampare migliaia di copie con una bella copertina
sgargiante per educare alla lettura, mi sa proprio che la soluzione sta
da qualche altra parte. Se un ragazzino entra in un supermercato e
resta attratto dalla grafica come potrebbe esserlo da qualunque altro
gadget variopinto e poi al limite legge pure le pagine in bianco e
nero, senza annoiarsi di fronte all’omogeneizzato che gli viene
propinato, il massimo dell’effetto è che continuerà a leggere
omogeneizzati anche da adulto. Se la crisi dell’editoria verrà superata
considerando il lettore, giovane o meno giovane che sia, un bovino, e
producendo migliaia di copie per pochi titoli, l’effetto non cambierà:
avremo un gregge di consumatori che attingono alle pile di best seller
all’ingresso delle librerie e negli scaffali dei supermercati e degli
autogrill, non certo una comunità di lettori critici capaci di
discernere e una cultura letteraria fiorente e costruttiva. Scrive Genna:

C’è un’interiorizzazione dell’autocensura che è direttamente
proporzionale al pensiero sul lettore: l’autore che ossessivamente
scrive e corregge pensando che il lettore in quel punto non capirebbe,
o che l’editore storcerebbe il naso. […] bisogna resistere all’editore. Se si è consapevoli delle proprie
intenzioni e si è maturi artigianalmente, il testo va difeso dagli
emendamenti proposti dall’editore, che concernono quasi sempre zone di
non leggibilità, ripetizioni e iterazioni volute, linguaggio che tende
al poetico, involuzioni, strutture non compatibili con la linearità. E’
certo che si necessita di uno sguardo altro, perché è
fondamentale comprendere che l’esito letterario non coincide con le
intenzioni dell’autore – ma bisogna scegliersi gli interlocutori.
Bisogna che gli interlocutori editoriali comprendano e le intenzioni
autoriali e le intenzioni di chi legge. In breve: bisogna dare da se
stessi, in quanto autori, l’assalto a un testo che sarebbe vile in
quanto reso piatto da un’autocensura ormai automatica e funebre, e che
sarebbe devastato perché sarebbe seguìto come un’ombra da un testo primo fantasmatico che è stato emendato, semplificato.

 Genna ha deciso di saltare l’editoria tradizionale e di distribuire i suoi libri, anche cartacei, online.
Anche io credo che per diffondere contenuti e forme che contribuiscano
veramente alla vitalità della cultura la soluzione di fronte al mondo
editoriale asfittico e mercantile di cui Genna parla stia nelle
autoproduzioni. Campando di traduzioni, continuerò a lavorare per
questo mondo, ma questa attività la prenderò per quel che è: quel che
si fa per campare. Per entusiasmarmi, per commuovermi, per aspettarmi
scosse drastiche nella mia griglia di pensiero, per proporre contenuti e scelte stilistiche radicali, mi rivolgerò altrove —
alla rete per le novità e, per i libri che non si ristampano perché non
rende, so che la libera diffusione dei saperi ha altri strumenti che spesso e per fortuna inevitabilmente pongono rimedio alla massificazione del pensiero: penso a libreremo, e spero che di progetti come questi ne fioriscano sempre di più. L’alternativa è l’oblio.

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4 responses to “resistere all’editoria”

  1. Beh, siamo al solito discorso generale dell’omologazione commerciale dei prodotti “artistici”. Senza scadere nel tritissimo discorso della “protezione” dei bambini da violenza, scurrilità e altre amenità simili esercitata da certe lobbies (Unione Genitori e simili), vorrei citare i terribili tagli subiti dall’anime Rupan Sansai nel suo adattamento italiano (Lupen III). Gli editor italiani, dando per scontato che il cartone fosse destinato a un pubblico infantile hanno massacrato le varie puntate con tagli di scene considerate “volgari” (le nudità di Fujiko Mine/Margot, ad esempio) arrivando a rendere incomprensibili certe puntate. Eppure, nonostante questo obbrobrio vi sono un buon numero di fan (tra i quali io) che non si sono fatti ingannare da questi sotterfugi e hanno attinto alla grande rete, non appena avutane la possibilità, per recuperare le puntate violentate e per colmare il vuoto culturale creato dai talebani censori delle TV.
    Io credo che vi saranno sempre persone che accetteranno passivamente gli omogenizzati e altre che dopo un po’ li sputeranno per passare a “cibi” più elaborati, pesanti forse da digerire, ma gustosi e soddisfacenti.
    Costoro si chiamano avanguardie… tutti gli altri stanno indietro, pecore pronte a seguire il primo demagogo sulla piazza. Vale la pena preoccuparsi per loro?
    Ti racconto un episodio: entro in un supermarket del libro al centro commerciale Le Torri, chiedo alla commessa se hanno “Tideland”.
    Questa mi guarda stupita e mi chiede “Ma…che cos’è?”
    Penso di aver fatto la faccia di Kermit la rana a questa risposta.
    Ebbene, dopo averle spiegato che si trattava di un libro e dopo aver appurato che non ce l’avevano sono andato a ravanare tra i vari volumi esposti, evitando accuratamente quelli troppo pubblicizzati, e mi sono trovato tra le mani una serie di chicche gustosissime che ho prontamente acquistato. Per non accontentarsi di un omogenizzato bisogna far fatica, non c’è scampo, come non c’è scampo alla legge di gravitazione universale. C’è, regola il moto nostro e degli astri e se vogliamo muoverci non possiamo prescinderla in nessun modo (finora).
    Infine un commento sulla rete: essa è solo un mezzo, interessante, utile e ricco, di ricerca e scambio d’informazioni. Non sarà mai la panacea, al massimo un buon aiuto per permettere a chi “ricerca” di collegarsi e comunicare con altri ricercatori.

    Isn’t it, darling?
    P.S. ho cercato volutamente di tenere uno stile “anticommerciale”. Non accetto editing al mio commento 😉

  2. Non conoscevo produzionidalbasso.com: grazie. Darò un’occhiata piuttosto volentieri. Un amico, già autore di qualche testo e finalista ad un paio di premi Tondelli, sta migrando dalle sue case editrici a lulu.com; gli ho appena finito una copertina. Ma Lulu non m’attira. Proprio no, onestamente. Viceversa, dovrò commissionare una statua con le tue fattezze per la dritta su vibrisselibri.net.
    Sulla Rete, invece, ho più d’una smorfia rispetto a ciò che dici. Pur essendo utente e lavorandoci da quando non c’erano i modem a 56Kb, continuo a non vederla come un luogo da cui scoprire il mio mondo. Quello è fatto di alberi, animali e libri. Di cose che posso toccare. Ma è una «tendenza mia individuale» ;^)

  3. be’, Sejo, innanzitutto grazie per i ripetuti complimenti 🙂
    e poi: nel momento in cui un testo è online, non mi pare che il problema della distribuzione si ponga davvero — chiunque disponga di banda veloce puo’ accedere a quel testo. I problemi sono semmai la difficoltà a leggere a monitor e la promozione, ma hai visto vibrisse libri ( http://vibrisselibri.net/)? loro fanno ufficio stampa per libri che non stampano, mentre per la stampa sono varie le strade raggiungibili, da lulu a produzioni dal basso (http://www.produzionidalbasso.com/), per fare solo due esempi.
    molti dei libri che leggo in libreria non si trovano: bisogna andare e ordinarli; ma, purtroppo per molte librerie a me care, diciamocelo — questo passo non è più necessario, visto che esistono innumerevoli librerie online. io spesso ordino libri via internet, e credo che questa tendenza si diffonderà sempre di più, quindi l’autoproduzione cartacea ha buone probabilità di diffondersi.
    quanto alla promozione, dipende da cosa si va a cercare: posso scoprire che un libro mi interessa perché è stato recensito su un giornale cartaceo, ma molto più probabilmente io, che scopro il mio mondo su internet, individuero’ le mie letture preferite sui siti che seguo, e anche questa non penso che sia una tendenza mia individuale.
    non ti pare?

  4. L’unico inconveniente dell’autoproduzione è la relativa distribuzione. O si è nel “circuito” o non si ha la chance di trovare un prodotto che entusiasmi, commuova, scuota drasticamente la griglia di pensiero, et coetera.
    Boh. Non so. Ho un paio di titoli praticamente pronti e non so a chi proporli. Meglio: amerei che fossero stampati dalla mia casa editrice preferita, viceversa pensavo che sarebbe stato più coerente autoprodurre, ma poi?

    Grazie per le tue riflessioni, in ogni modo. È un piacere leggerti.