Dopo diversi mesi di pausa (e di fervente attività da ADA Lab) approfitto della pausa estiva per rimettere mano al mio romanzetto discronico sull’insurrezione del Matese. Una sua parte è già uscita, in una primissima versione intitolata “Ritorno al Matese”, su Ruggine #3 e, tradotta in inglese, sull’ultimo numero dello Steampunk Magazine. Ora la storia c’è tutta, e aspetta di uscire su carta e in versione digitale con Collane di ruggine. Nel frattempo, ecco l’introduzione: se avete curiosità di leggere il resto in anteprima o magari volete proporvi come editor, scrivetemi una mail o lasciate un commento qui.
Matese 77 – Introduzione
Nel 1865, quando Bakunin venne in Italia, una profonda crisi travagliava il paese. Il nuovo regno dei Savoia non rispondeva punto alle aspirazioni di coloro che avevano lottato per l’indipendenza.
Per lunghi decenni schiere di generosi avevano combattuto per liberare l’Italia dalla tirannide dell’Austria, del Papa, dei Borbone e degli altri principotti che se ne dividevano il territorio. Era il fiore della gioventù italiana che, colle cospirazioni, gli attentati, le insurrezioni, affrontava il martirio.
Errico Malatesta, 1928
Il 3 aprile del 1877 un paesino isolato alle pendici meridionali del massiccio del Matese assiste a una visita inusitata.
Lontano dalle rovine delle antiche città romane, dalle amenità delle località balneari e dai salubri effluvi degli stabilimenti termali che attraggono i turisti stranieri in altri angoli più ridenti della regione, un calesse raggiunge il villaggio di San Lupo. A bordo ci sono un dignitoso gentiluomo inglese dalla lunga barba fluente e un’avvenente signorina dagli occhiali verdi con al seguito un interprete, un giovane prestante dallo sguardo penetrante e dall’eloquio forbito tinto di inflessioni campane.
I tre hanno preso in affitto la Taverna Iacobelli, una palazzina all’ingresso del paese, e assoldano i ragazzini venuti a curiosare per scaricare le molte casse pesanti e i bauli trasportati a bordo del carro. Sistemati i bagagli e perlustrata la zona, il gentiluomo riparte assieme agli altri per far ritorno, dice, nel giro di pochi giorni.
Il 5 aprile alla Taverna cominciano ad arrivare uomini alla spicciolata. La sedicente servitù del poco credibile nobiluomo inglese non è però altro che una banda di internazionalisti anarchici, e il signore stesso è niente meno che Carlo Cafiero, accompagnato da Errico Malatesta nelle vesti del traduttore e probabilmente dalla moglie Olimpia Kutuzova.
Una banda di giovani entusiasti fra i venti e i trent’anni, spinti da un profondo senso della giustizia e decisi a scatenare, per la prima volta nella storia dell’anarchismo italiano, la rivoluzione sociale. A ispirarli nella scelta del luogo furono di certo le condizioni sociali del Mezzogiorno d’Italia, ma anche, con ogni probabilità, i racconti della guerra che dieci anni prima era infuriata in quelle terre. Subito dopo l’annessione delle Due Sicilie, infatti, le truppe savoiarde si trovarono ad affrontare un conflitto civile che sfociò nel massacro di interi villaggi e i cui strascichi non terminarono che all’inizio dello stesso decennio in cui si svolgono i fatti narrati, seppure attraverso una lente discronica, in questa storia.
Le bande dei briganti tennero sotto scacco i militari del Regno per anni, e solo falcidiando la popolazione e facendo terra bruciata intorno ai ribelli, i Savoia riuscirono a riprendere il controllo del territorio. Ignorando fino a che punto una politica del genere possa schiacciare un popolo per generazioni, i nostri immaginarono quelle terre cariche di rancore trattenuto a stento – polvere da sparo cui sarebbe bastata un’unica miccia per esplodere in una deflagrazione devastante. La propaganda del fatto: era questa la loro unica arma. Dimostrando agli oppressi che insorgere era possibile, avrebbero scatenato, o almeno così pensavano, un’ondata rivoluzionaria che avrebbe travolto le montagne, estendendosi a macchia d’olio verso la pianura con la forza dell’ideale.
Trascinati dall’ardore della prima internazionale e da una visione un po’ romantica e anche un po’ meccanicistica della storia, i nostri, una cinquantina in tutto, si affidarono a un uomo del posto, un ex garibaldino, tale Salvatore Farina, per mettersi in contatto con i contadini della zona. Ma invece di fare da tramite come promesso, questi vendette alla forza pubblica le informazioni di cui era in possesso. La sera dell’atteso arrivo di Stepnjak, il più esperto di tutti nell’affrontare missioni in campo aperto, le guardie erano già allertate e il russo veniva fermato assieme a un compagno nella vicina stazione di Solopaca, mentre altri due gendarmi si avvicinavano di soppiatto alla Taverna Iacobelli.
Intanto gli internazionalisti si preparavano alla notte, alcuni all’interno della casa, altri fuori per mancanza di spazio. Furono questi ultimi a notare la presenza degli sbirri e, subito dopo, a fare fuoco. Nello scontro uno dei due gendarmi restò ferito e, avendo capito di essere stati scoperti, gli anarchici, in soli ventisei, si diedero alla macchia dirigendosi verso la vetta del massiccio, decisi a tentare la sorte in un villaggio ancora più isolato, possibilmente in un’altra provincia.
Era l’inizio di aprile, ma come forse i nostri avrebbero potuto prevedere se si fossero fermati a discutere con i contadini del posto, sul Matese il freddo era rigido, e la neve che si era posata durante il lungo inverno non si era ancora sciolta.
La banda, tuttavia, raggiunse in una notte Letino, un gruppo di casine di pietra ammucchiate su un cocuzzolo vicino alla vetta più alta del massiccio. Qui, senza colpo ferire, i ribelli issarono sul municipio la bandiera rosso-nera e bruciarono le carte comunali e catastali proclamando decaduta la monarchia.
Il giorno dopo, sotto gli occhi esterrefatti dei paesani, gli internazionalisti ripeterono le stesse gesta nel vicino villaggio di Gallo Matese, e qui perfino il prete suggellò la loro impresa dichiarando che le parole che pronunciavano corrispondevano al Verbo del Signore Gesù Cristo. Quando giunse voce dell’arrivo dei soldati, però, la popolazione locale pensò bene di starsene a guardare mentre i nostri ventisei fuggivano nella tormenta. L’obiettivo era sconfinare dalla Campania al Molise, dove le autorità non erano state ancora allertate.
A bloccarli furono il freddo e il ghiaccio, la fame e i fucili inutilizzabili, perché nella furia i cavastracci indispensabili per caricarli erano stati lasciati alla Taverna Iacobelli. Intanto dodicimila soldati guidati dal generale De Sanget setacciavano il territorio, e il 12 aprile un reparto di bersaglieri fece irruzione nel loro rifugio, una masseria dove i nostri avevano ricevuto ospitalità il giorno prima.
Se le cose fossero andate come le aveva immaginate il ministro dell’interno Giovanni Nicotera, i giovani anarchici sarebbero stati giudicati da un tribunale di guerra e condannati quasi certamente a morte. Ma caso volle che Nicotera in gioventù fosse stato anch’egli un rivoluzionario, e si fosse cimentato assieme a Carlo Pisacane in un altro, primissimo tentativo di propaganda del fatto, la celebre spedizione di Sapri. Il ministro aveva poi adottato la figlia del Pisacane, Silvia, e fu proprio costei a intercedere per quei suoi coetanei che si erano ispirati alle gesta di suo padre. I membri della banda furono così tutti assolti, e molti di loro continuarono a battersi fino alla morte per la causa dell’anarchia.
Finisce così, un po’ comico e un po’ malinconico, uno degli avvenimenti fondativi dell’anarchismo italiano, e viene da chiedersi che cosa ne sarebbe stato del Meridione se i piani di quei giovani entusiasti fossero andati in porto. Da questa fantasia, e da uno sguardo mesto e a volte atterrito sul Mezzogiorno e sulla storia dell’Italia unita nasce l’idea di questo libro, che attraverso una patina steampunk e una distorsione storica cerca di proiettarsi al di là dei semplici fatti e di guardare a quel che siamo con una visione alternativa e quindi, in certo modo, più lucida dei fatti.