A un getto di spugna


Ornella (Orny) Pascera è l’anagramma del santo più laico che c’è, San Precario, e quando Ornella ha deciso di aprire il suo blog per parlare di media e precariato, io subito ho cominciato a seguire le sue storie con interesse e rabbia condivisa, sperando di leggere le tante ornelle che affrontano da vere superoine il lavoro (spesso fin troppo mitizzato) delle redazioni giornalistiche e editoriali. Per questo, quando mi è finalmente venuta voglia di cominciare a raccontare le mie esperienze di lavoro precario in casa editrice, subito ho pensato a lei. Ecco il pezzo che le ho mandato e che lei prontamente ha pubblicato.

A un getto di spugna

Arrivo a Roma una mattina di febbraio. Nevica. Nonostante il freddo, ho
addosso solo un cappotto di maglina e le scarpe aperte. Ho ancora il
chiodo fisso di fare una buona impressione agli appuntamenti di
lavoro: anche se ne fossi capace (ma non è affatto il mio mestiere,
diciamolo), è un’ambizione che passerà comunque presto ma che per
ora è ancora trattenuta da certe vane illusioni. Trasferirmi a Roma
per me vuol dire tuffarmi nel centro dell’industria culturale
italiana, passare dal lavoro per case editrici specializzate o
provinciali agli stimoli continui del mondo dell’editoria che
conta, quello che riempie le borse degli italiani a Natale, quello da
cui provengono i libri che si regalano agli amici cari, i libri che
fanno storia, i libri che leggiamo anche io e i miei conoscenti.
Basta con gli editori sconosciuti dell’estrema periferia, o con i
tomi di tecniche ortopediche e chirurgia veterinaria, basta con i
pop-up degli animali della fattoria e i cataloghi di polverose
pinacoteche: finalmente potrò occuparmi di libri veri, di libri
famosi, o quanto meno di libri tanto belli che li comprerei anche io.

Aspetto il tram con impazienza: tra mezz’ora ho un colloquio alla casa
editrice da cui dovrei svolgere lo stage conclusivo del mio illustre
master in editoria. Avrei preferito farlo altrove, dedicarmi alla
narrativa o a una certa saggistica impegnata, ma al corso la
competizione è accesa soprattutto per chi vuole andare a Roma, e io
voglio assolutamente stare lì. L’alternativa sarebbe Milano, ma
Milano mi spaventa, non conosco nessuno, temo che tra la pioggia e la
nebbia mi assalga una delle mie ormai ricorrenti crisi depressive.

Finisco così in una casa editrice di libri illustrati con cui ho già un
contatto: qualche mese prima avevano bisogno di una traduzione veloce
e un collega mi ha passato il lavoro. Da allora mi fanno tradurre
guide turistiche: una noia mortale, ma ci si spiccia in fretta e alla
fine la paga oraria è migliore di altre. Più dei sette euro e mezzo
lordi a cartella che mi rendono le favolette e più veloce dei saggi
geopolitici che, sì, mi vengono pagati di più, ma poi bisogna
trovare le citazioni nei libri, studiare, informarsi, e non è
neanche detto che quello che scrivo mi trovi d’accordo, anzi: a
volte mi vergogno persino del contenuto dei libri che traduco.
Comunque con le guide finisce che riesco a prendere dieci euro
all’ora, e io una somma del genere ormai la considero anche
dignitosa: mi accontento di poco per vivere.

Alla casa editrice romana riesco anche a strappare un rimborso mensile per
il mio stage: una somma che altri miei colleghi si sognano. Alcuni
devono cavarsela con i buoni pasto: visti i prezzi delle stanze, a
volte mi chiedo se si siano sistemati sotto un ponte.

 

Io, mi pare di averlo già detto, ho qualche turba psichica, e l’idea
di vivere in una stanza doppia mi fa orrore. Vivere in un
appartamento condiviso mi andrebbe anche bene, ma da queste parti se
vuoi una stanza devi superare interrogatori dettagliatissimi e, sarà
che le mie insicurezze traspaiono in superficie, sarà che con me
deve venire anche il mio gatto, alla fine sono costretta ad
accontentarmi di una stanza con bagno e angolo cucina a Vitinia,
oltre il Grande Raccordo Anulare in direzione del mare. In quei pochi
metri quadri perfino il mio gatto sta stretto: chiuso lì dentro
tutto il giorno al buio miagola disperato.

All’inizio comunque la soluzione mi pare ottimale: anche se l’affitto è molto più caro dei miei standard, pago la stessa cifra che sborserei per
una stanza più vicina al centro, ho la mia indipendenza e il treno
che viene da Ostia è a un tiro di schioppo. Non ci vuole più di un
paio di giorni per capire la fregatura: io sono abituata a
metropolitane mediamente affollate, non immagino ancora le vetture
romane in ora di punta, dove nell’ora di viaggio che mi ci vuole
per arrivare al lavoro non riesco neanche a leggere il giornale. Qui
il giornale non posso nemmeno aprirlo: è lo spazio che manca, e
anche la concentrazione sulle parole scritte mi sfugge. Con tutti i
discorsi che rimbombano contro le pareti dei vagoni, i significati si
perdono nella folla.

 

In
casa editrice, in compenso, continuo a entrare con venerato rispetto
per qualche mese: sono convinta che questa sia un’esperienza da cui
imparare, non ho ancora calcolato che con il loro rimborso si stanno
finanziando una collaborazione che da libera professionista mi
frutterebbe il triplo. Conto ancora di poter arrivare al punto di
decidere quali libri verranno pubblicati in questo paese e quali no.
Forse pazientando per una decina di anni… e intanto tutti i giorni
mi alterno tra incombenze di bassa manovalanza e mansioni altamente
professionali e scarsamente retribuite per produrre su scala
industriale (spesso nelle tipografie cinesi, che costano di meno)
costosissimi libri da esporre sui tavolini dei salotti che contano:
fantastici volumi patinati, luccicanti, e completamente insulsi. Gli
status symbol dell’alta borghesia romana, veltroniana e radical
chic.

Mentre tento di carpire i segreti del mestiere continuo a tradurre le guide,
stavolta con la paga mensile dello stage. Mi consolo pensando che in
questo caso posso leggere direttamente le correzioni delle bozze e
migliorare le mie traduzioni esaminando la revisione. Scopro allora
che l’espressione inglese “at a stone’s throw” non va
tradotta, come ho fatto io, con “a un tiro di schioppo” bensì
con “a un getto di spugna”. Ne parlo con l’editor: mi dice che
suona meglio. Le credo e mi adeguo, senza neanche verificare. Da quel
giorno in tutte le guide che tradurrò terrò bene a mente il
consiglio traduttivo della mia collega, impiegata nell’azienda già
da un paio d’anni e sicuramente, penso io, più esperta di me.
Continuo a dirmi che ho solo da imparare.

Quando il mio stage finisce la casa editrice mi offre un contratto di
sostituzione di maternità raddoppiandomi la paga. Io faccio due
conti e chiedo di triplicarla: così oltre a pagare l’affitto potrò
permettermi anche un po’ di tempo libero senza passare la notte a
occuparmi delle collaborazioni occasionali che svolgo diligente da
troppo tempo. Loro acconsentono, basta che non pretenda anche i
contributi. “Mi ricordi me da ragazza”, mi dice la direttrice
editoriale: “anche io volevo tutto e subito”. Mentre le sorrido
mansueta mi chiedo se anche a lei, quando era ragazza, sia capitato
di pagare un affitto pari allo stipendio mensile che riceveva da
mezzo anno.

Avevo così davanti a me la sicurezza di un altro anno di libri bomboniera:
una sicurezza a termine, ma non meno monotona, la garanzia di otto
ore di lavoro al giorno più due per andare e tornare dall’ufficio,
dove bisognava che mi presentassi puntuale anche se a casa avrei
tradotto le guide turistiche molto meglio e più in fretta, senza
pause sigaretta, pause caffè, esose pause pranzo, pettegolezzi e
sfoggi di eleganza delle impettite colleghe. Bisognava che mi
presentassi ogni mattina, senza discussioni, anche se per legge il
mio contratto non richiedeva la presenza in sede. “Il fortino deve
essere presidiato”, scherzava la mia collega editor, quella del
“getto di spugna”. Ho cominciato a marcare male quando nei giorni
di sciopero della metropolitana ho deciso di restare a casa a
lavorare per non alzarmi un’ora prima e inseguire l’ultimo treno
disponibile.

Dopo
un altro mezzo anno, anche se finalmente iniziavo a uscire
dall’incubo di solitudine e angoscia della vita ai margini di una
metropoli caotica e spesso settaria, anche se non mi facevo più
cogliere dall’affanno ogni volta che mettevo piede in una stazione
della metropolitana e alla fine avevo individuato le giuste strategie
di sopravvivenza e spazi più accoglienti e affini a me, ho
cominciato a convincermi che l’unico modo per aspirare a una vita
soddisfacente fosse disertare la metropoli e i ritmi imposti
dall’esterno. Dopo una riflessione nemmeno troppo lunga ho scelto
di licenziarmi e di ricominciare a tradurre soltanto come libera
professionista. In realtà le mansioni che svolgevo nella casa
editrice avrebbero potuto essere svolte ovunque: sarebbe bastato che
passassi un paio di volte al mese in redazione, probabilmente. Siamo
nell’era di Internet, pensavo. Invece di fronte a quell’impensabile
defezione la direttrice editoriale ha preso a manifestare un un
disprezzo nemmeno troppo celato nei miei confronti. La slealtà
all’azienda si paga.

Nei primi mesi che hanno fatto seguito al mio trasferimento le guide
turistiche hanno continuato a tenermi impegnata tra non pochi
sbadigli, e i getti di spugna non sono certo mancati: gli alberghi
più fantastici si trovano sempre, in tutte le guide che si
rispettino, “at a stone’s throw” dal centro, dal museo di arte
moderna, dal tipico mercato di tappeti eccetera eccetera.

 

Un giorno la direttrice editoriale, fatto strano, mi chiama: è sempre
in giro a organizzare eventi e a intrattenere grandi autori e spesso
dà solo un’occhiata fugace alle bozze dei libri in uscita: del
resto in questa industria è la copertina che conta. Stavolta invece
a quanto pare le avanzava qualche giorno libero: è riuscita a
rileggere tutta la mia traduzione, la prima che ho consegnato da
quando mi sono licenziata. E infatti mi telefona proprio per
raccomandarmi di stare più attenta nell’altro lavoro che sto
facendo, 200 noiosissime cartelle in venti giorni, come l’altro,
quello che la direttrice ha tra le mani: una traduzione alla velocità
della luce, tanto sono guide. Devo fare attenzione, mi dice, perché
nel testo che ho appena consegnato, invece, mi sono sfuggiti molti
inglesismi. “Per esempio hai tradotto at a stone’s throw
con a un getto di spugna, e questo è chiaramente un calco, non lo vedi?”.

Io vorrei risponderle tante cose. Che “getto di spugna” non è
certamente un calco, per esempio: che rapporto potrebbe mai esserci
tra stone, una pietra evidentemente dura, e la spugna, che
invece è morbida e appartiene al regno animale? Ma siamo al
telefono, e non c’è tempo per tante sottigliezze. Non ho il cuore
nemmeno di denunciare la prima responsabile del mio errore, la mia
collega editor: lei è ancora lì a sopportare l’umore lunatico
della direttrice, e poi mi sento in colpa per non aver mai verificato
in prima persona quell’espressione, per non essermi fermata a
pensare che la spugna, quando si getta, non ha niente a che fare con
le distanze e invece rimanda alle sconfitte. Evidentemente le
distanze che percorrevo ogni santo giorno mi hanno ottenebrato fino a
farmi dimenticare cosa significassero le parole. Non trovandomi a un
tiro di schioppo da nulla di quello che avevo sperato, cominciavo a
metterci una pietra sopra. Solo quando poi la spugna l’ho gettata
veramente le parole hanno recuperato pian piano il loro senso. Mi
chiedo, spesso, se la mia collega editor, bella come una top model,
tenebrosa come una notte di luna nei cieli del Mediterraneo, ma non
tanto precisa né attenta, abbia notato, mentre la direttrice
editoriale sbraitava sui miei plateali errori di traduzione, che
quello sbaglio lo aveva commesso anche lei, ricordando a sua volta,
fosse solo per qualche istante, quale valore abbiano davvero parole e
azioni.

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2 responses to “A un getto di spugna”

  1. Questo lato della tua vita romana mi era sfuggito. Avessi capito in che diamine di gorgo ti trovavi avrei provato ad aiutarti. Hai scoperto in modo “cruento” come il lavoro organizzato moderno sia un immenso pallone pieno di nulla. Chiacchere e tailleurs, sfruttatori allegri e sfruttati “felici” tutti nemici di tutti.
    Che tristezza. Che spreco di belle menti.
    Una domanda: come c**** hai fatto ad accettare “il tiro di spugna”?

  2. Cara Reginella,
    che suggestiva energia e che efficacia di resa nelle tue parole: complimenti!
    E poi – quasi inutile aggiungerlo – come e quanto m’immedesimo (sebbene le mie esperienze personali in materia siano ben più dddrammatiche!).
    Grazie per aver voluto condividere questi ricordi e pensieri,
    basciii