Steampunk di tutto il mondo… #1


È esattamente un mese che non aggiorno il blog, ma a parte alluvioni e cavallette ho avuto qualche traduzione da fare e qualche intreccio da tessere. Un testo in particolare sta indirizzando parecchio il mio immaginario e dato che è stato molto importante per ideare una storia che sto provando a scrivere, ho pensato di tradurlo, anche perché tradurre è un modo a me familiare di leggere con attenzione. È un testo molto lungo — così rimedio all’assenza 😉 — ma credo che possa essere d’ispirazione per chi pensa ad ambientazioni steampunk anomale, come può essere ad esempio il Mezzogiorno italiano. Che c’entra l’Italia del Sud con un saggio sulla letteratura postcoloniale e lo steampunk? Ho pensato che una buona risposta fosse una frase di Luigi Carlo Farini, politico italiano e primo ministro del Regno subito dopo l’annessione delle Due Sicilie: «Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile!»

Non sto diventando neoborbonica: sto solo provando, come dice Ay-leen the Peacemaker in questo suo breve saggio, a “ricostruire il passato per creare un futuro migliore”. Data la lunghezza del testo, ho dovuto suddividerlo in due post: la seconda parte si trova qui. Qui il PDF di tutto il testo.

(Questo saggio è comparso in inglese sui blog Free the Princess e Doctor Fantastique’s Show of Wonders e sul sito dello Steampunk Magazine, e la sua traduzione italiana viene pubblicata con il permesso dell’autrice con una licenza Creative Commons non commerciale condividi allo stesso modo.)



Steampunk di tutto il mondo, unitevi!
Il multiculturalismo nello steampunk

di Ay-leen the Peacemaker

1. Il multiculturalismo: una bussola, molte direzioni

Quando si pensa ai termini “steampunk” e “multiculturale”, il primo impulso è di grattarsi la testa con perplessità. Dalla nascita dello steampunk come stile, definito inizialmente come una forma di espressione estetica ispirata all’Inghilterra vittoriana, nel mondo sono state evocate immagini di aristocratici boriosi dalla pelle chiara che portavano gli occhialoni appoggiati sul cappello a cilindro mentre se ne andavano in giro sul loro dirigibile. L’aggettivo “multiculturale” ha un suono troppo moderno, troppo variegato, troppo poco attinente a questo stile per potersi associare alla natura dello steampunk, rappresentata da canoni che si stanno rapidamente formalizzando via via che questa subcultura entra in contatto con i canali commerciali e che esempi stilistici di questo sottogenere filtrano nella cultura popolare (quando anche Lady Gaga si agghinda con occhialoni e tubi arrotolati intorno alla testa, è un segno che ormai ci stanno arrivando proprio tutti). Lo steampunk multiculturale, però, non è una delle tante varianti dello steampunk ed è piuttosto, a mio parere, intrinseco alla definizione stessa di steampunk nella sua natura di forma di sovversione espressiva creativa. Pertanto, lo steampunk medio si confronta con più aspetti dello steampunk multiculturale di quanto si potrebbe pensare, e allo stesso modo lo steampunk multiculturale è un esempio lampante di come si possa impugnare la bandiera del “punk” e decidere di agitarla per conto proprio.

A differenza della parola steampunk, il multiculturalismo è molto semplice da definire. Ecco la voce del dizionario inglese Merriam-Webster:

mul·ti·cul·tur·al
Pronuncia: \ˌməl-tē-ˈkəlch-rəl, -ˌtī-, -ˈkəl-chə-\
Funzione: aggettivo
Data: 1941
: di, relativo a, influenzato da o adattato a diverse culture.

Ma come nel caso dello steampunk, il concetto e l’applicazione del multiculturalismo sono in costante evoluzione. Inoltre, a dispetto dell’opinione comune più diffusa, ciò che è multiculturale non ha sempre a che fare con la razza e con culture non europee. In effetti, il multiculturalismo è un concetto artificiale creato appositamente per contrastare un altro concetto artificiale: quello di “cultura dominante”, la cultura con cui la maggioranza è spinta a identificarsi. Nel caso dell’America settentrionale e dell’Europa occidentale, la “cultura dominante” è quella che si confà alla prospettiva del maschio bianco cristiano abile, eterosessuale, cisgendered e di ceto medio. E se possiamo guardare alla cultura dominante come a una massa di stronzate, è perché tra di noi la maggioranza non si identifica con quella che viene considerata la “prospettiva dominante”. Siamo donne, di colore, di fedi diverse (oppure atee o agnostiche), di vario orientamento sessuale e di genere, di origini economiche disparate e con diverse abilità fisiche. Si può insomma osservare che molti aspetti della nostra vita si collocano al di fuori del quadro di riferimento dominante e rivelano con la loro stessa esistenza che il multiculturalismo riguarda molte persone. Tornerò ancora su questo punto.
Tuttavia, nell’ambito di questo post tratterò il multiculturalismo innanzitutto in rapporto alla razza e alle culture non occidentali e in rapporto alla cultura dominante anglofona ed europeo-occidentale. La stragrande maggioranza della subcultura steampunk si situa in zone dove è questa la cultura dominante; inoltre, per me che parto da un punto d’osservazione interno a una comunità più ampia, questa è anche la cultura dominante in cui sono cresciuta. Infine, non posso vantare né un’esperienza di vita né una cultura degna di questo nome riguardanti la comunità steampunk attiva ad esempio in Giappone, nel Sudest asiatico o anche in Europa orientale.
Al fine di definire l’importanza del multiculturalismo e l’influsso che questo ha esercitato sullo steampunk (in modi che potrebbero sorprendervi), facciamo un passo indietro per scoprire in che maniera il multiculturalismo – metodo pedagogico sorto in reazione alle modalità dell’istruzione occidentale istituita nel corso del diciannovesimo secolo – si sia sviluppato per giungere a influenzare tutta la società.

2. La fabbrica dell’apprendimento: lo sviluppo dell’istruzione di massa in epoca vittoriana

La riforma moderna della scuola inglese ha avuto inizio nel diciannovesimo secolo nel momento in cui la rivoluzione industriale ha raggiunto il suo massimo impeto. In precedenza la forma più diffusa di pubblica istruzione era quella delle parrocchie, dove i bambini imparavano a leggere (per studiare la Bibbia) e solitamente poco altro. La successiva formazione professionale si svolgeva nell’ambito degli apprendistati obbligatori per imparare un mestiere. Le classi alte, naturalmente, avevano l’opportunità di mandare i figli a studiare nelle università più antiche o all’estero, in Francia o in Germania. Ma nell’ottocento le idee sulla pedagogia iniziarono a cambiare. La promozione della crescita tecnologica, tuttavia, non andò di pari passo con il principio di un’istruzione obbligatoria e laica. Di fatto, per tutta la prima metà del diciannovesimo secolo, quando la rivoluzione industriale aveva già preso piede, quasi tutti i bambini delle zone sia rurali che urbane rimasero nelle fattorie o nelle fabbriche. Era più pratico mandarli a guadagnare per la famiglia che sostenere i costi di un’istruzione universale. Inoltre, i ceti aristocratici non vedevano alcuna utilità nell’istruzione di massa, ed era difficile sostenere la pubblica istruzione a livello giuridico.
Le prime iniziative tese a estendere l’istruzione alla maggioranza meno abbiente della società inglese furono prese con il Movimento della scuola domenicale di Robert Raikes, che vide la luce nel 1780 e nel 1814 aveva formato 1,25 milioni di bambini. Negli anni trenta del diciannovesimo secolo altre norme legali portarono la pubblica istruzione all’ordine del giorno, con la costruzione di scuole per gli indigenti e con la fondazione di istituti non religiosi. Nel 1840 il Grammar School Act ampliò i programmi scolastici, che oltre alla lettura e ad alcune nozioni di matematica giunsero a comprendere anche le scienze e la letteratura. Il governo inglese, comunque, prese a interessarsi alla riforma scolastica soprattutto a causa delle crescenti tensioni sociali. Know Britain descrive in maniera puntuale l’evoluzione della pubblica istruzione, sottolineando che:

“Nella seconda metà del diciannovesimo secolo la criminalità e la povertà aumentarono, così come le rivolte, gli scioperi e le tensioni sociali. La supremazia commerciale e industriale della Gran Bretagna era in declino, e si riteneva che la causa principale fosse il più avanzato sistema di formazione scolastica tecnica diffuso in altri paesi europei. La stabilità politica e la prosperità economica apparivano ormai associate all’istruzione della popolazione”.

Il primo sistema scolastico formale fu istituito nel 1870 con l’approvazione del Forster Act, che portò alla fondazione di una serie di collegi per i bambini inglesi. Anche la creazione del moderno libro di testo fu un’innovazione vittoriana. Sebbene i libri di testo esistessero già nell’antica Grecia, con la nascita dell’istruzione dell’obbligo l’esigenza di materiali scolastici standardizzati divenne più pressante. In quello stesso periodo i libri di testo non furono uniformati solo in Inghilterra ma in tutto il mondo occidentale: In Inghilterra e nell’Impero britannico furono scritti nel corso del diciannovesimo secolo svariati libri di testo a opera di John William Donaldson, mentre negli Stati Uniti si diffusero i McGuffey Readers. Anche in Francia, in Germania e in altri paesi furono sviluppati sistemi formali di pubblica istruzione, e paesi nordici come la Norvegia e la Svezia e centroeuropei come la Germania e la Prussia diedero inizio a queste riforme modernizzanti leggermente in anticipo rispetto all’Inghilterra.
Come si può immaginare, l’istruzione di massa svolse un ruolo determinante nei territori coloniali, dove costituì innanzitutto un sistema per subordinare e assimilare la popolazione autoctona nell’ambito del regime coloniale e per rafforzare il dominio imperialista, sia per ragioni pratiche di ordine economico che per motivi politici.
Questo modello scolastico si è diffuso in tutto il mondo attraverso il colonialismo britannico e ha esercitato un forte influsso sullo sviluppo dei programmi scolastici di altri paesi anglofoni (ad es. gli Stati Uniti, altri paesi americani e l’Australia). Anche molti modelli di governo europei hanno elaborato un proprio sistema scolastico nazionale, e nei paesi che detenevano territori coloniali questi sistemi scolastici avevano tutti diversi elementi in comune con il sistema britannico. Tra questi vi è il fatto che anch’essi venivano riprodotti nelle colonie e usati nel quadro di un sistema teso (1) a gestire la popolazione autoctona alleandosi con i governanti coloniali e (2) a contribuire a idealizzare il canone occidentale nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali e le innovazioni occidentali nel campo della matematica e delle scienze come superiori a qualunque contributo autoctono o alle alternative non occidentali.
Nel caso del Raj britannico, ad esempio, si legge in uno studio storico:

“Per sessant’anni l’espansione titubante dell’istruzione di stampo britannico nelle province centrali permise di studiare a una ristretta élite indiana sebbene gli amministratori inglesi avessero auspicato, nei primi anni sessanta dell’ottocento, che l’istruzione producesse in via diretta e indiretta cambiamenti di gran lunga più rilevanti nella popolazione. Come osservato in precedenza, la pubblica istruzione doveva perseguire tre obiettivi: primo, istruire una ‘classe media agricola’, secondo, fare in modo che questa fungesse a sua volta da ‘leva’ per influire sulle classi inferiori, e terzo, addestrare alcuni indiani (nella fattispecie quelli classificati come brahmini Maratha) a ricoprire posti amministrativi subordinati”.

L’idea che nel migliore dei casi gli autoctoni sarebbero stati adatti a diventare ingranaggi secondari nel più vasto sistema coloniale va inoltre a braccetto con il concetto di darwinismo sociale tanto diffuso nel diciannovesimo secolo. Gli effetti dell’istruzione coloniale nei paesi non occidentali sono stati duraturi, soprattutto se si considera che le ex colonie si stanno ancora districando dal retaggio del pregiudizio imperialista a livello sia mentale che sociopolitico. Come afferma il teorico e docente universitario keniota Ngugi Wa Thiong’o in Decolonising the Mind, questa istruzione “[…] annienta la fiducia di un popolo nel suo nome, nella sua lingua, nel suo ambiente, nella sua storia di lotta, nella sua unità, nelle sue capacità e infine in se stesso. Gli mostra il suo passato come una terra desolata di insuccessi e fa nascere in lui il desiderio di prendere le distanze da questa desolazione. Gli fa desiderare di identificarsi con quanto è più remoto da se stesso”.

3. Rimestare nel crogiolo delle culture: dall’assimilazione al multiculturalismo

Nel caso degli Stati Uniti e del Canada, la questione dell’istruzione di massa divenne fondamentale in una società popolata da molti gruppi immigrati e, al pari delle potenze europee, anche questi paesi posero l’accento sulla teoria dell’assimilazione nella cultura dominante. Negli Usa in particolare, questa idea fu concettualizzata nel concetto di “melting pot”: l’idea che tutte le culture e tutti i popoli potessero essere riuniti in un unico crogiolo armonico di nazionalità statunitense. Questo termine fu coniato nel 1915 da Israel Zangwill in un acclamato dramma omonimo in cui il protagonista, l’ebreo russo David, dichiara:

“L’America è il Crogiolo di Dio, il grande Crogiolo nel quale tutte le razze d’Europa si fondono e rifoggiano! Eccovi qui, brava gente, penso, quando li vedo a Ellis Island, eccovi qui nei vostri cinquanta gruppi, con le vostre cinquanta lingue e storie e con i vostri cinquanta odii cruenti e rivalità. Ma non rimarrete così a lungo, fratelli, perché sono i fuochi di Dio quelli che vedete – eccoli, i fuochi di Dio. Me ne infischio delle vostre faide e delle vostre vendette di sangue! Tedeschi e francesi, irlandesi e inglesi, ebrei e russi: tutti nel Crogiolo! Dio sta creando gli americani!”

La realtà del “melting pot” ha rivelato, com’è ovvio, gravi pecche nella società nordamericana e ha prodotto un’enfasi sulla cultura angloeuropea superiore a quella riservata a tutti gli altri gruppi che hanno fornito il proprio contributo. Questo concetto si è dimostrato difettoso anche alla luce del fatto che nel periodo in cui più è stato sbandierato il principio del “crogiolo culturale” sono state anche imposte molte quote sull’ingresso degli immigrati di certi gruppi etnici (come i cinesi) e questa idea è stata usata per affermare la superiorità della cultura anglofona (come nel caso del movimento “English Only” [che sostiene l’uso della sola lingua inglese negli atti ufficiali Usa]). Persino nel testo che ha dato origine al termine si pone l’accento sulla formazione di una più forte identità statunitense tra i soggetti europei giudaico-cristiani, senza accennare agli altri popoli di colore e fede diversi.
In “Multicultural Education: Transforming the Mainstream”, il loro contributo a Critical Multiculturalism: Rethinking Multicultural and Antiracist Education, un libro incentrato sulla politica dell’istruzione multiculturale, i pedagoghi Mary Kalantis e Bill Cope osservano che tutto sommato la politica assimilatrice è stata inefficace anche a causa del razzismo: “Il gioco che è stato posto in atto, almeno in parte, è consistito in una forma strutturale di razzismo pensata per mantenere intatta la differenza anziché in un più onesto progetto di assimilazione socioeconomica che avrebbe tentato di offrire pari accesso a tutti gli immigrati e, nel Nuovo Mondo, anche ai popoli indigeni”.
Il concetto di istruzione multiculturale è stato il primo passo di un nuovo modo di ripensare la diversità nella scuola. Lanciata negli anni sessanta nell’ambito del movimento Usa per i diritti civili, la politica del multiculturalismo si basava sull’ideale di un ampliamento della pubblica istruzione che andasse oltre il suo nucleo occidentale ed eurocentrico (qui una breve storia in inglese). In occidente anche altri paesi hanno sviluppato una loro riforma scolastica multiculturale, e in Canada, unico stato che abbia compiuto questa scelta fino in fondo, il governo ha promulgato una linea politica ufficiale orientata verso il multiculturalismo.
Ma la politica scolastica multiculturale dell’occidente ha prodotto risultati ambivalenti. Nella sua applicazione pratica sono state osservate diverse mancanze: Kalantis e Cope spiegano che negli anni sessanta e settanta molti tentativi di porre in atto misure multiculturali hanno ricevuto fondi insufficienti o sono stati considerati iniziative scolastiche secondarie e supplementari che erano poi le prime a essere colpite dai tagli al bilancio. I due studiosi accennano al fatto che molti progetti multiculturali sono stati ideati per comunità di colore dotate di scarse risorse e lasciate perlopiù a se stesse e non sono stati integrati nei programmi scolastici generali, cosa che sarebbe stata invece utile per tutti gli studenti e in particolare per la maggioranza bianca. Di conseguenza, Kalantis e Cope concludono che non sono mai stati messi in discussione i parametri precedenti dettati dall’egemonia europea occidentale in fatto di pubblica istruzione:

“[Il multiculturalismo] non implica che le autorità scolastiche debbano ripensare l’assetto delle istituzioni pubbliche o dei programmi formativi, e può costruire l’‘etnico’ o il tradizionale ‘altro’ come un’entità esotica al fine di emarginarlo o, per tornare alle radici greche che attribuiscono all’aggettivo ‘esotico’ il significato di collegamento con l’esterno, in modo da escludere l’altro”.

Solo alla fine degli anni ottanta la teoria dell’istruzione multiculturale ha mutato nuovamente orientamento, andando a enfatizzare un’istruzione multiculturale che fossilizzava le identità etniche degli studenti e al tempo stesso aiutava la comunità sul piano sociale. I progetti multiculturali sono stati allora determinati dalla collettività con un accento sulle modalità in cui le varie culture si intersecano con la vita quotidiana. Questo connubio tra istruzione e giustizia sociale di base è ben lungi dall’essere applicato di routine nella scuola odierna.
Per quanto riguarda l’istruzione multiculturale nei paesi occidentali, tuttavia, la sintesi migliore è stata compiuta da Britologywatch in un dibattito sul multiculturalismo in Gran Bretagna: “Questo vale a dire che i soggetti appartenenti a culture non autoctone sono liberi di continuare a esprimere le loro identità culturali d’origine, ma devono subordinare le credenze, i valori e le caratteristiche comportamentali di tali culture all’accettazione generale e alla sottomissione alle norme e ai valori ‘britannici’”. La politica multiculturale è stata sottoposta a riesame in molti altri paesi occidentali, ed è stata rimessa in discussione la sua pertinenza riguardo alla pubblica istruzione, o si sono rinfocolate le paure che una scuola multiculturale potesse implicare la distruzione di un’identità coesiva nazionale.
Di fronte a tutti gli ostacoli che le iniziative multiculturali dovevano superare per essere realizzate, quanto è stato efficace il multiculturalismo da quando questa idea è stata affermata per la prima volta cinquant’anni fa? Come sottolinea il blog antirazzista Restructure, nella sua versione odierna la politica multiculturale è stata usata per trattare le comunità di colore in maniera paternalistica, confinando il loro discorso politico esclusivamente alla sfera delle iniziative culturali. La discussione su altre istanze collegate al razzismo sistematico – quali la povertà, la discriminazione nel mercato del lavoro, la profilazione criminale, le preoccupazioni generiche sulla violenza contro le donne e i bambini di colore e i delitti di stampo razziale – non viene incoraggiata in nessun ambito politico in quanto “il multiculturalismo le dissimula, le maschera ed è diventato un mezzo politico per governare e gestire le comunità di colore, sicché questa linea politica si articola solo in nome della cultura, di una cultura definita in termini decisamente patriarcali”.
Insomma, il multiculturalismo viene considerato una posizione progressista che però può dare risultati assai variabili se la sua attuazione non passa da una salda adesione ai suoi princìpi.

4. La subcultura steampunk e l’istruzione moderna: insegnare oggi la storia di ieri

Che cosa c’entra tutta questa teoria pedagogica con la comunità steampunk? Che rapporto c’è tra la scuola moderna e un passatempo consistente nel chiudersi in un garage a esercitarsi con i fucili sonici o nell’andarsene in giro a decantare le lodi del tè con un casco coloniale in testa? Perché inserisco un argomento moderno e banale come quello dell’istruzione, un tema tipico dei discorsi elettorali dei politici o delle maratone televisive, nel discorso sullo steampunk? Lo steampunk non è altro che un hobby per molti, un’estetica per altri e uno stile di vita per pochi, generalmente per quelli che comunque protesterebbero contro gran parte delle regole della società contemporanea. Che cosa hanno in comune la pubblica istruzione e l’evoluzione di una subcultura?
In una parola: tutto.
Quello che apprendiamo è collegato al modo in cui ci comportiamo. Cosa consideriamo importante e prezioso e cosa no è una nostra scelta personale che però è influenzata da quel che ci insegnano gli altri e la società.
Nello sviluppo dello steampunk come interesse popolare e come subcultura, molti affermano di essersi “imbattuti” nel termine steampunk rendendosi conto solo in quel momento che questo concetto definiva i loro interessi preesistenti. È sorprendente constatare quante persone provenienti da percorsi diversi ricorrano alla parola “steampunk” per descrivere quel che gli piace. Un motivo della diffusione dello steampunk che sembra troppo scontato (o forse troppo disturbante) per parlarne è che lo steampunk fa riferimento all’egemonia culturale europea occidentale.
Lo steampunk è nostalgico perché si richiama alle storiografie dominanti che molti dei suoi adepti hanno studiato da bambini, nell’ambito di un sistema scolastico occidentale o di ispirazione occidentale.
Lo steampunk affascina perché fa leva sulla struttura pedagogica che è stata creata per sostenere l’ideale europeo occidentale.
Ed è probabile che chi scopre che i suoi interessi sono in linea con quanto si definisce “steampunk” – dalla storia europea allo stile Reggenza fino ai trenini giocattolo, agli orologi da taschino e ai romanzi popolari d’avventura di inizio Novecento – abbia cominciato a nutrire quegli interessi in un ambiente favorevole all’egemonia europea occidentale. Molti hanno potuto apprendere solo il canone occidentale, i classici della letteratura, dell’arte e della storia dell’occidente invece di quelli non occidentali. E gli effetti duraturi dell’imperialismo occidentale sono collegati all’interesse per lo steampunk.
Certo, le eccezioni e le obiezioni a questa tesi non mancano. Per chi vive in Gran Bretagna o in altri paesi dell’occidente, è legittimo il fascino nei confronti degli aspetti steampunk radicati nel luogo in cui si è cresciuti. E in fin dei conti non tutti i membri delle società occidentali sono interessati allo steampunk: se questa egemonia culturale è stata così influente, non dovrebbero essere stati tutti a subire il “lavaggio del cervello” che porta ad apprezzare esclusivamente prodotti europeo-occidentali? Gli occidentali si interessano a cose non occidentali e viceversa.
Vorrei inoltre sottolineare che nel riconoscere che lo steampunk si inserisce nell’egemonia culturale europeo-occidentale non intendo esprimere un giudizio, anche se sospetto che qualcuno se la prenderà comunque a male. Il motivo per cui qualcuno potrebbe sentirsi offeso è la percezione di un’“accusa” nell’idea che la sua libertà personale di apprezzare o meno qualcosa sia stata manipolata da una “teoria del complotto” sugli intrighi della società. Non è questo l’obiettivo delle mie osservazioni. L’aspetto che mi preme mettere in rilievo è piuttosto che il fatto che si gradisca o meno qualcosa non ha origine dal nulla ed è collegato direttamente a ciò con cui si entra in contatto, soprattutto nei più influenzabili anni giovanili. Se qualcuno ha solo un concetto vago della storia, dell’arte, delle invenzioni ecc. non occidentali e non eurocentriche, è improbabile che ne sia profondamente affascinato così come accade con quel che viene prodotto in occidente.
Quel che non possiamo dunque ignorare è che il modo in cui siamo stati istruiti e educati dalla società ha influenzato i nostri interessi e il modo in cui scegliamo di dedicarci a essi. E la maggioranza di noi steampunk è stata istruita con modalità occidentali o imposte dall’occidente, modalità che dall’era dell’imperialismo occidentale in poi hanno subìto riforme minime e sono riuscite solo in minima parte a distaccarsi dal canone occidentale.
Per gli steampunk delle ex colonie questo ha implicato l’apprendimento dei valori occidentali ed eurocentrici prima ancora che di quelli locali, come pure l’attribuzione all’occidente di tutti i valori principali che bisogna emulare per avere successo a livello globale. Con un commento che riecheggia l’affermazione di Thong’o, nel suo saggio The Intersection of Race and Steampunk Jha Goh afferma: “A volte ho l’impressione che la mia sensibilità ‘occidentale’ sia un effetto collaterale del colonialismo britannico o dell’imperialismo occidentale in genere; questo spiegherebbe il disprezzo che provavo da ragazza nei confronti della cultura malese e l’ammirazione che nutrivo nei confronti degli occidentali, che mi sembravano tanto particolari, avevano un sacco di idee brillanti e scrivevano storie così interessanti da riuscire a commuovere anche una persona che viveva dall’altra parte del pianeta”.
Per gli steampunk che si identificano con gli emarginati dei paesi occidentali, questo ha implicato la cancellazione, la repressione o la distorsione delle proprie storie personali in favore della cultura dominante. Questo significa che al momento di scegliere se e quanto assimilarsi, molti emarginati prenderanno la decisione dolorosa di negare, nascondere o dissimulare la loro identità culturale e razziale per “integrarsi” invece di “dare nell’occhio”, ma continueranno nondimeno a essere riconosciuti e trattati come estranei dalla cultura dominante.
Per gli steampunk che si identificano con la cultura dominante dei paesi occidentali, questo implica una lacuna culturale riguardo al resto del mondo. Significa nascondere, negare o camuffare altri aspetti che sapete essere estranei alla cultura dominante (come ad esempio essere donna, ateo o queer) perché date per scontato che, facendo parte della “maggioranza”, dovete “integrarvi” il più possibile per avere successo nella società. E sono queste lacune culturali e le restrizioni imposte dalle norme sociopolitiche create dall’egemonia europeo-occidentale a creare gli “ismi” dell’oppressione a cui potreste star contribuendo senza saperlo. Siamo tutti ingranaggi dello stesso meccanismo, perfino voi, perfino io, perfino chi lotta contro la cultura dominante dall’interno (poiché lottare contro qualcosa significa aver già riconosciuto di essere in relazione con l’entità contro cui si lotta).

(Continua qui)

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