Mary B. Dieci anni dopo – Un racconto


In questi giorni i racconti e i commenti sull’esperienza traumatica di Genova 2001 sono stati tanti (questi per me sono stati fra i migliori): anche troppi per me, che per dieci anni ho schivato le narrazioni individuali, mie e degli altri. Mi sembrava che l’unico processo per far rimarginare le ferite, per andare avanti, fosse un processo di ricostruzione storica che evitasse le santificazioni e le banalizzazioni. Però a un certo punto (forse per via dello stesso strano magnetismo che ha avvolto gli eventi di quei giorni e che ha fatto andare molti di noi a Genova anche se già ci aspettavamo il macello), anch’io ho avuto improvvisamente il bisogno di narrare, prima di tutto a me stessa, per non perdere la memoria. Ho cercato di ricordare ogni momento, di ricostruire quelle ore in un filo narrativo coerente, ma la realtà non è mai un cerchio che si chiude come in un racconto. Per dire almeno qualcuna delle cose che avevo da dire, da ricordare, la mia storia da sola non bastava. Quando me ne sono resa conto le cataratte si sono aperte e le parole sono uscite tutte insieme. Ecco un racconto di Genova 2001, inventato fino a un certo punto.

Sto correndo più che posso, veloce quanto i miei polmoni asmatici mi concedono, in mezzo a quella che può essere definita una folla.

Il ragazzo con cui sono venuta mi stringe forte la mano per non perdermi, si preoccupa per me e non gli importa di essere rallentato dalle mie gambe, molto più corte delle sue e sicuramente meno allenate. Dovrei essergli grata, ma sotto il velo sconcertante della paura, provo fastidio. Dopo giorni di discussioni feroci, alla fine siamo venuti assieme, e io già mi aspetto i rimproveri: te l’avevo detto che ci andavamo a cacciare in un gran casino, che era molto meglio andarsene al mare. Ci ho messo un mese a fargli capire che sarei venuta comunque, a costo di scappare di nascosto. Lo so anch’io che l’aria è pesante, ma non te ne resti a casa al sicuro quando a pochi chilometri da te si fa la storia. Dopo una serie di sfuriate lui ha concluso che impedirmi di partire era improponibile e che il massimo che poteva fare era accompagnarmi. E ora eccolo qui, a scappare con me in una nuvola di lacrimogeni.

Un manipolo di agenti antisommossa si avvicina sempre di più. Cerco di lasciare la mano del ragazzo, in modo che almeno uno dei due possa fuggire. Lui mi riafferra e mi trascina in una strada laterale. Mi accorgo che alcune persone intorno a noi vengono strattonate fuori dalla folla e gettate a terra. Altre, il viso coperto con cappuccio e maschera antigas, si muovono più agilmente e gli sbirri non riescono a raggiungerle. Sono impacciati dai loro scudi, dalle uniformi ingombranti, e la folla blocca la loro corsa mentre questi ragazzi e queste ragazze svicolano tra i corpi paralizzati dal terrore, rinchiusi in massa in una trappola imprevista.

Pensare che neanche ci volevo stare in questa piazza. Ma alla fine ho ceduto alle sue insistenze. Stiamo coi nostri amici, ha detto: cosa ci vuoi fare in giro per Genova da sola? E poi qui ci sono i pacifisti, qui almeno non può succedere niente. Anche nel corteo c’erano delle mie amiche. Avevano limoni e occhialini e sapevano il fatto loro, ma lui non le conosceva. Tanto alla fine il risultato è uguale.

Ci infiliamo in una stradina, senza sapere nemmeno dove porti. Probabilmente è un vicolo cieco, ma la nebbia dei lacrimogeni è troppo densa per saperlo. Dopo qualche passo vediamo un ragazzo che spacca con una spranga la vetrina di una banca, e quella è la prima volta che lui mi lascia la mano. Resta qui, mi intima con sguardo serio, e non si accorge di essere ridicolo con quella sua aria decisa, lui che al massimo va ai cortei del primo maggio. Poi con passo marziale si dirige verso il giovane vestito di nero e lo tira lontano dalla vetrina. Lo vedo urlare, il dito alzato, il tipo col cappuccio allarga le braccia e si allontana di corsa. In quell’istante una truppa invade la strada con i manganelli alzati. Il ragazzo col cappuccio mi prende per la manica e mi porta al sicuro dietro un angolo buio.

Nel vicoletto in cui siamo entrati mi ritrovo circondata dal blocco nero, che ancora non so nemmeno cosa sia, e girandomi a guardare vedo che il ragazzo con cui sono venuta viene bloccato dagli agenti. Nell’ultima immagine che ho di lui, è schiacciato a terra con la faccia sull’asfalto da due grossi poliziotti in borghese.

Mentre gli sbirri prendono a calci le persone nella stradina, vedo la strada riempirsi di sangue e corro nella direzione opposta assieme agli altri, sapendo che il ragazzo con cui sono venuta non lo rivedrò mai più. Non vedrò più nessuna delle persone che conoscevo in quella piazza.

Sono fuggita, non c’è altro da dire. All’inizio pensavo semplicemente che ci fosse stato un golpe, e per giorni sono rimasta nascosta assieme ai miei compagni perché non sapevamo dove andare. Avevano già ucciso un ragazzo, Carlo si chiamava, e di molti altri si erano perse le tracce. A un certo punto ho incontrato una mia amica in lacrime, una delle donne più dure e intransigenti della città, una che ha lavorato in un ospedale in Africa. Era disperata perché un amico era stato preso dalla polizia e non si sapeva che fine avesse fatto. E i telefoni che non prendevano, le camionette che si lanciavano a tutta velocità contro la folla inerme. Fino al giorno prima non avevo ancora capito che quella era pura normalità.

Poi ho guardato quel ragazzo negli occhi, quello che mi aveva portato in salvo. C’era apprensione nei suoi occhi, ma non paura. Era allerta, attento, sulle spine, disilluso, ma non spaventato. Aveva dei grandi occhi castani, la pelle scura. Era curdo, forse, o palestinese. E molto più giovane di me, dieci anni almeno. Ma si vedeva che quella situazione l’aveva già vissuta, in un altro mondo, nel suo paese.

Nel vicoletto si è tolto la maschera per un istante, per rassicurarmi, probabilmente. Io lo spavento dovevo emanarlo da tutti i pori, invece. Mi ha detto: vieni con noi, è meglio. E copriti con questa.

Una sciarpa bagnata sulla bocca, l’ho seguito tra i vicoli di Genova, in cima a scalinate interminabili e ancora un po’ più su. Dall’alto, vedevamo il fumo salire dalle piazze, come in un plastico che vada a fuoco, poi ci siamo fermati.

Hai paura? Mi ha chiesto il ragazzo con cui ero scappata. Ho annuito. Non è facile farci l’abitudine, ha detto. Ma è meglio così che non provare più niente.

Non sono più tornata, questo è tutto. E no, non ci ho fatto ancora l’abitudine. Il golpe non c’è stato, o almeno nessuno se n’è accorto davvero. Ma ora so che a essere globalizzata non è solo l’economia. Lo è anche la violenza.

Da un momento all’altro puoi trovarti in Cile o in Palestina, non solo a Genova, ma in qualunque posto del pianeta, dalla Svezia all’Australia. E quando lo capisci non torni più indietro, non puoi riprendere la tua vita di prima come se niente fosse.

Non sono più tornata, e mentre mi aggiro dietro le quinte di cartone di questi stati fantoccio, che fingono di essere vivi a colpi di tonfa, esploro le crepe urbane e gli angoli abbandonati dove per vivere non ho bisogno di chi mi protegga, e dove fioriscono i germogli degli orti comuni.

I riferimenti a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti sono molteplici, ma il tutto è mescolato assieme in modo assai casuale. Grazie a Mary Black, non solo per le frasi che ho ripreso dalla sua lettera scritta ad AlterNet dopo il G8 di Genova del 2001 e tradotta in italiano qui.

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2 responses to “Mary B. Dieci anni dopo – Un racconto”

  1. C’è una cosa che mi è restata da quel luglo di dieci anni fa. Ma, per quanto mi sforzi di uscirla, essa resta là, indescrivibile, immaterialmente presente ogni volta che sento un elicottero o una sirena, vedo uno sbirro, vengo a sapere delle varie repressioni nel mondo, qualcuno parla di quei giorni.
    Allora ripenso alla cantata che ci siamo fatti quella notte a Bale, in riva al mare, quella versione demenziale di Genova per noi, e sorrido. Perché, nonostante tutto, laggiù imparai qualcosa.